Enrico Sisti, la Repubblica 07/10/2010, 7 ottobre 2010
BRAD GILBERT
«Non ho una grande opinione di Brad Gilbert». John McEnroe era convinto che mai, in nessun modo, nemmeno se l’avversario si fosse presentato sui trampoli o con le scarpe a motore, sarebbe riuscito a perdere contro quel “mestierante” di Brad Gilbert, un essere inferiore apostrofato così da uno spettatore durante un torneo a San Francisco: «Come diavolo fa a vincere questo tizio? Colpisce la palla come se avessero dato una racchetta a un uomo delle caverne!». Il cavernicolo sarebbe diventato il futuro allenatore di Agassi e di Murray. Almeno una volta il cavernicolo sconfisse McEnroe sfidandolo sul suo terreno: i nervi. Avvenne nel 1986, agli ottavi del Masters. Gilbert vinse costringendo il suo avversario a prendersela, nell’ordine, con se stesso, col pubblico, con la racchetta, con le palle, con l’arbitro, con il tennis più in generale («ma io che ci faccio qui?», grido John a un cambio di campo) e infine con il mondo intero. Fu Gilbert e non McEnroe a fare il “McEnroe”, fu lui a dettare i tempi e a vincere “sporco”. Ora i due s’incrociano sui campi come commentatori. Sette anni dopo quell’impossibile vittoria, in quell’irripetibile partita, Gilbert scrisse un libro (Winning ugly) che parlava sostanzialmente di sé, del suo tennis “brutto e sporco” con cui avrebbe battuto avversari molto più forti di lui e vinto cinque milioni di dollari di montepremi: un libro, Winning Ugly, che racconta di tutte quelle partite che si possono vincere andando con la racchetta alla “mental warfare”, la guerra dei trucchi, facendo il miglior uso delle debolezze altrui. Giochi psicologici, attenzione per i dettagli, prima e durante un match. La “mental warfare” è la continuazione del tennis con altri mezzi.
Mai pubblicato in Italia, Winning ugly esce giovedì per Priuli & Verlucca (Vincere sporco - Guerra mentale nel tennis. Lezioni da un maestro, euro 17,50) in omaggio ai vent’anni trascorsi dalla sua prima edizione e un po’ anche per ricordare l’inossidabilità di certi consigli. «Ho vinto un sacco di partite che avrei dovuto perdere. Tu hai perso un sacco di partite che avresti dovuto vincere». Fu questa la doppia frase, una il rivestimento dell’altra, che convinse Agassi ad ingaggiare Gilbert come coach: lo riportò al n. 1 della classifica mondiale. Il salto di qualità, dice Gilbert, deve iniziare dalla testa. Nadal è un esempio: «Lui pensa al tennis anche quando si lava i denti, pensa alla partita prima che sia iniziata, lui la partita l’ha già giocata prima di scendere in campo», ha detto pochi giorni fa, durante gli ultimi Us Open, aggiungendo un’ideale postilla psichica al suo libro ripubblicato in paperback negli Usa. Nadal applica d’istinto la “mental warfare» predicata da Gilbert: «Sa di essere più debole di Federer ma vince: perché si impegna costantemente per migliorarsi». Federer ha sofferto di “nadalite”. E così Djokovic quest’anno. Del resto vincere “bello” non è da tutti. Di Caroline Wozniacki Gilbert dice: «Lei è la donna che ha vinto più “sporco” in carriera. Soprattutto perché è la più brava a denudare le avversarie: le fa giocare talmente male che alla fine, esaltando le sue non eccelse qualità, è arrivata (per poco tempo, ndr) al n. 1». Vinci credendo nei tuoi colpi. Perdi quando il rapporto con i tuoi colpi è minato dal dubbio. Vinci quando impari a scacciare la tensione o a rivoltarla contro chi ti sta davanti. Perdi se è lei a travolgere te.
Ed eccoci al “turtle time”, al momento della tartaruga. Una tecnica che imparò da Lendl nel 1986 a sue spese e che poi canonizzò, chiamandola in quel modo e poi sfruttandola contro Connors al Masters della stagione successiva, come aveva fatto in precedenza anche con McEnroe: una serie di strategie per costringere l’avversario a giocare di fretta e rinunciare alla tattica, perché sotto pressione anche se sei bravo puoi anche dimenticarti della tattica. «Perdi il lume ». Lui va di corsa? Hai vinto. Il “turtle time” è l’estasi del giocatore d’azzardo. Quel giorno Lendl stava perdendo e allora «cominciò a chiedere cose assurde all’arbitro, interrompendo il gioco, mostrandosi infastidito da flash che non c’erano («perché dopo due ore e mezza nel 1987 gli spettatori avevano finito la pellicola»). Ecco allora i venti rimbalzi della pallina prima di servire. Ecco che Ivan (sotto di 2-0 nel terzo e decisivo set) torna a lamentarsi con l’arbitro: stavolta perché Brad è lento nel servire. Così lui rallenta chi è già lento: «Capite la genialità? Entrava nel mio trucco e lo faceva suo». “Turtle time” è Nadal che si tocca due volte le orecchie e il naso, si stiracchia le mutande e chi se ne frega se gli danno un warning per aver ritardato il servizio. «Il mio libro è uscito quando comandavano Jim Courier e Monica Seles: vent’anni dopo i ferri e i trucchi del mestiere sono gli stessi e così la “mental warfare”». Quel «tu sei migliore di quello che pensi, anche oggi, anche in questo momento ». Stancare mentalmente l’avversario e non accontentarsi mai. Caso Agassi: «Cambiò quando pensò a non colpire più la palla “presto”, ma “più presto” ». Questo è il tennis. Centimetri, centesimi di secondo, furbate. E pensare che mai la madre avrebbe immaginato che Brad potesse avere una mente così raziocinante: «Da bambino non riusciva a pulire i piatti ed era meglio che non gli chiedessi di mettere a posto la sua stanza. Sembrava proprio che non sapesse da dove cominciare». E il disorganizzato senza speranza divenne un maestro di speranze. Anche chi gioca sporco va in paradiso.