Francesco Alberti, Corriere della Sera 07/10/2010, 7 ottobre 2010
I PRODIANI E IL TRADIMENTO: «ERANO PIÙ DI CENTOUNO»
I PRODIANI E IL TRADIMENTO: «ERANO PIÙ DI CENTOUNO» –
Sarà ricordata come l’imboscata dei 101. Ma in realtà furono di più, «115-120». E non ci fu nulla di schizofrenico, né di lasciato al caso, in quell’agguato che il 19 aprile scorso affossò la candidatura di Romano Prodi al Quirinale: «Si trattò di un boicottaggio organizzato in piena regola». Le varie bande che decisero nel segreto dell’urna di affossare l’uomo dell’Ulivo, padre nobile e tra i fondatori del Pd, agirono quel pomeriggio come un sol uomo, unite da una tacita regia alimentata da motivazioni (personali e politiche) differenti, ma assolutamente convergenti nell’individuare nel professore bolognese un ostacolo da rimuovere, un simbolo da abbattere: «C’era chi pensava di dover vendicare Marini per la mancata elezione nelle prime votazioni; quelli che pensavano si dovesse dare una possibilità a D’Alema; quelli che si erano convinti che l’elezione di Prodi avrebbe portato rapidamente alle urne; quelli che volevano un’alleanza di governo larga, estesa al Pdl, e vedevano in Prodi un ostacolo». Ma c’erano anche coloro che volevano «far pagare a Bersani le primarie dei parlamentari e il rinnovamento della classe dirigente». E qualcuno, anche, «colpire Renzi», che si era speso per il Professore dopo aver bocciato Marini e Finocchiaro.
Sandra Zampa, giornalista, ex capo ufficio stampa di Palazzo Chigi ai tempi del governo Prodi, attuale deputato pd alla seconda legislatura e portavoce del Professore, non ha l’ambizione di fare il Sherlock Holmes, andando a caccia, nome dopo nome, dei 101 (115-120) dell’imboscata quirinalizia. Ma il suo libro — «I tre giorni che sconvolsero il Pd» (Imprimatur editore, 160 pagine, in libreria dal 9 ottobre) — a forza di seminare indizi, di fatto consegna agli elettori un identikit molto plausibile di chi quel giorno tradì. «I nostri elettori vogliono i nomi — scrive Zampa —. Ne conosco ormai un buon numero, tuttavia se pubblicassi anche un solo nome falso, commetterei un’ingiustizia». Quei tre giorni, raccontati dalla parlamentare con stile asciutto e dovizia di particolari, rappresentano per il Pd, già stressato dal deludente risultato elettorale, il big bang dei propri vizi d’origine, a partire dall’incapacità di fondere in «una nuova identità riformista le culture politiche del Novecento (ex diesse, ex popolari, ex dielle)», per non parlare poi della «deformazione ipercorrentizia» che ha mutilato qualsiasi leadership, trasformando in regola il concetto secondo il quale «le componenti rispondono prima al capocorrente e poi al segretario».
Se questo è lo scenario, non c’è da stupirsi se Romano Prodi, pur in quelle cruciali ore lontanissimo da Roma (a Bamako, Mali, per una missione Onu), captò al volo, con largo anticipo rispetto ai massimi dirigenti del partito, il disagio e l’insofferenza di larga parte dei Grandi elettori pd sul suo nome. Non a caso, rivela Sandra Zampa, «aveva chiesto che il suo nome venisse sottoposto a votazione segreta» nell’assemblea al teatro Capranica dove Bersani lanciò la candidatura del Professore. Ma non se ne fece nulla: «Si votò per alzata di mano, di fatto nessuno contò i voti». E alla fine passò l’immagine di una standing ovation . Una candidatura morta in poco meno di 24 ore. Era decollata il 18 aprile, dopo l’affossamento di Marini, da un’iniziativa di Arturo Parisi, raccolta dal bersaniano Vasco Errani, benedetta da Franceschini e ufficializzata da una telefonata in Mali di Bersani. Ma è solo nella notte tra il 18 e il 19, quando sfuma definitivamente quella che era considerata l’unica vera alternativa a Prodi (Massimo D’Alema), che il nome del Professore prende il volo. Per essere impallinato.