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 2013  ottobre 06 Domenica calendario

CASO MONTESI, 60 ANNI DI MISTERO


Furono necessari sei mesi perché la morte di Wilma Montesi diventasse almeno un mistero dopo essere stata frettolosamente liquidata come un incidente provocato da un malore. Dall’11 aprile al 6 ottobre 1953. E ancora oggi, sessant’anni dopo, quel giallo è rimasto. Insoluto, angosciante. Un pezzo di storia d’Italia che passato ben oltre mezzo secolo sembra così tanto attuale. La morte, il presunto omicidio, della bella ragazza del Salario ritrovata senza vita, annegata, nelle acque di Torvajanica dopo essere scomparsa da un paio di giorni, potrebbe essere tranquillamente paragonato a uno dei tanti casi di cronaca nera degli ultimi anni, mesi, giorni.
Un giallo da prima pagina, come se il tempo non fosse mai passato. E fu proprio uno scoop, una "bomba", come la definirono allora, a trasformare la tragica fine dell’aspirante attrice – aveva 21 anni, mora, alta, slanciata e bella – da un anonimo episodio – non certo per la sua famiglia, ma per il grande pubblico – in uno dei casi giudiziari più discussi. Un intrigo di sesso, politica, spettacolo, nobiltà e Roma bene, che fece dimettere un ministro degli Esteri, Attilio Piccioni, uno dei leader della Dc, e rinviare a giudizio il questore Saverio Polito, accusato di favoreggiamento.
«La verità sulla morte di Wilma Montesi», titolava proprio il 6 ottobre ’53 il mensile «Attualità», stampato a Torino e diretto da Silvano Muto. Una verità sconvolgente che arrivava dopo due premature archiviazioni dell’inchiesta che aveva stabilito come la ragazza fosse morta durante un improbabile e solitario pediluvio. In realtà, secondo il giornalista (scomparso nel 2007) che allestì una copertina ad effetto con una coppia di spalle illuminata dai fari di un’auto, Wilma era morta durante un festino nella zona di Capocotta o di Castel Porziano, un party proibito a base di alcol e droga, e i partecipanti – credendola morta o comunque per non dover spiegare quell’ingombrante presenza e non avere guai con la giustizia – decisero di disfarsi del corpo abbandonandolo sulla spiaggia di Torvajanica. In balìa delle onde che trascinarono presto la giovane in mare facendola annegare. Alla base di quella "bomba" c’erano le dichiarazioni di Adriana Concetta Bisaccia, ex dattilografa e anche lei comparsa cinematografica, alle quali si aggiunsero presto quelle di un’altra ragazza, Anna Maria Moneta Caglio Bessier d’Istria, detta Marianna. Se la prima veniva considerata una giovane dalla vita difficile, la seconda, milanese, era invece nobile e ricca di famiglia, pronipote nientemeno che di un Nobel per la Pace. Frequentava i salotti giusti, gli ambienti artistici, mondani e politici della Capitale.
Il 26 di quello stesso ottobre di 60 anni fa il Cigno Nero, come fu ribattezza perché bruna di carnagione e con il collo da modella, telefonò a Muto per raccontargli la sua verità.
Quella che finì per mettere nei guai Ugo Montagna, suo compagno all’epoca del caso Montesi, descritto dalle cronache come un faccendiere con contatti buoni anche nella politica – nonché amministratore della società che gestiva la spiaggia privata di Capocotta –, e Gian Piero Piccioni, jazzista di successo, amico di Montagna, ma soprattutto figlio del ministro, vice presidente del Consiglio del settimo governo De Gasperi. Le sue rivelazioni furono devastanti. Amintore Fanfani, ministro dell’Interni, ordinò un’indagine privata ai carabinieri che tuttavia appurò solo voci e nessun fatto concreto. Ma la vera "bomba" era già scoppiata. Un anno più tardi Montagna e Piccioni finirono in carcere – il secondo per omicidio colposo, il primo per favoreggiamento, indagato anche il questore Polito -, poi sotto processo. Ma furono assolti, come tutti gli altri protagonisti di questa storia. Solo il Cigno Nero pagò con una condanna a due anni e mezzo per calunnia e nel 2010 ha chiesto la riforma di quella sentenza svelando un altro retroscena: quel fatidico 6 ottobre scritto nella dedica su un libro fatta a Montagna dal procuratore generale della Cassazione Giuseppe Guido Loschiavo. Insomma, sessant’anni dopo non è cambiato nulla.
Angelo Frignani