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 2013  ottobre 06 Domenica calendario

LA NOSTRA TINA CHE PER TANTI ANNI URLÒ INASCOLTATA LA VERIT


DOPO «VAJONT» DI PAOLINI E DOPO IL FILM CON
LAURAMORANTE, Tina Merlin divenne un personaggio incontournable, come direbbero i francesi. Una di cui non si può fare a meno, ineludibile. E in molti che l’avevano ignorata se non vilipesa, si scoprirono improvvisamente suoi inconsolabili amici. Parlo dei giornalistoni alla Pansa, ad esempio, che probabilmente quando arrivò a Longarone per La Stampa, non avrà neppure voluto saperne il nome. O dei Bocca, che difendevano la Sade (la società elettrica proprietaria dell’invaso del Vajont) scrivendo su Il Giorno due giorni dopo il disastro nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare….tutto è stato fatto dalla natura. Altro che nessuno poteva prevedere. Per quattro anni Tina aveva raccontato, urlato la verità: mai tragedia era stata più annunciata di questa. Articolo dopo articolo, assemblea dopo assemblea, lei donna, comunista, piccola e anonima corrispondente de l’Unità da Belluno aveva cercato di aprire gli occhi, svegliare le coscienze. Tanto che sarà processata, e assolta, per un articolo del 5 maggio 1959: La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono. Come spiegò poi la sua non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui. Era una lotta per la vita, per il diritto dei montanari. Di quelle vite dure e rotte come era stata ed era la sua.
Conobbi Tina nel 1975, a Venezia. Cercava collaboratori per la redazione regionale. Lei, che da un retroterra intensamente cattolico era arrivata a essere una comunista convinta ma insofferente alle burocrazie del partito, cercò nelle sezioni del Pci di Venezia dei giovani da inserire in redazione. Voleva evitare che le imponessero qualche piccolo funzionario di federazione. Ovviamente all’inizio fui intimorito, non solo dall’essere arrivato senza rendermene conto in un giornale così importante, ma anche perché avevo di fronte questa compagna (allora si diceva e nessuno se ne vergognava) che mi sembrò subito forte e autorevole. Ma sentii che di lei potevo fidarmi, nonostante le sfuriate pluriquotidiane, gli articoli appallottolati e gettati nel cestino. C’erano ancora le macchine per scrivere e il primo fax, un Infotec arancione che arrivò qualche tempo dopo, era grande come una credenza.
Per molto tempo non seppi davvero chi fosse. Da buona montanara, Tina non parlava di sé. Neppure del «suo» Vajont. E anche di tutto il resto seppi molto tempo dopo. Del fatto che a 17 anni cominciò a fare la staffetta partigiana nel battaglione Manara: Joe il suo nome di battaglia. Bill era invece il nome da partigiano del fratello Toni, medaglia d’argento al valore militare, ucciso dai tedeschi il 26 aprile 1945. Remo era l’altro fratello, alpino, una delle centomila gavette di ghiaccio, scomparso da qualche parte in Russia.
Nonostante molto tempo passato con Tina, le cene nella sua casa alla Giudecca a Venezia, le discussioni a volte molto animate, con lei che bruciava una sigaretta dietro l’altra, la sua storia precedente l’ho scoperta soltanto leggendo molti anni dopo quel libro struggente che è La casa sulla Marteniga, il racconto di come è nata e si è formata la sua ribellione. La scuola interrotta prima di finire la quinta elementare, mandata a servire a Milano a tredici anni perché così si doveva in quegli anni. Imparai quella volta, in quel cortile, una cosa nuova: l’emarginazione dei poveri. La sentii nella pelle come una frustata. Ebbi netta la sensazione d’essere considerata diversa dalle mie compagne che abitavano in piazza, racconta. E nonostante ciò, quella necessità indomita, infinita di rivolta contro tutte le disuguaglianze e le ingiustizie che segnerà la sua vita intera. Nel caso di Tina non si tratta di parole vuote, ma esperienza Sulla pelle viva, come intitolerà il suo libro sul Vajont. Il 13 ottobre 1963, con la gola ancora serrata per quello che era appena successo a Longarone, Erto, Casso, scrive su l’Unità delle parole che la definiscono mirabilmente: Non volevo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita.