Franco Maria Ricci, Il Sole 24 Ore 6/10/2013, 6 ottobre 2013
L’ELEGANZA NITIDA DI BODONI
Il 1963 fu l’anno in cui scoprii Bodoni; allora ero un giovane grafico al servizio di una clientela di industriali in cerca d’identità e di immagine per la propria azienda. Quel l’anno nasceva, a Parma, nel Palazzo della Pilotta, in seno alla Biblioteca Palatina, il Museo Bodoniano. Fu questa l’occasione che mi portò a conoscere le sue meravigliose edizioni, e fu amore a prima vista. Da quel momento adottai i caratteri bodoniani e decisi di far nascere, a fianco della mia attività di graphic designer, una piccola casa editrice con l’unico compito di rieditare il grande Manuale tipografico di Giambattista Bodoni uscito postumo nel 1818 a cura della vedova. Il Manuale, potremmo definirlo al modo arabo «la Madre di tutti i libri», un abbecedario senza testo ma che in potenza li conteneva tutti.
Così, dopo due anni di lavoro, ho potuto offrire ai bibliofili e agli studiosi bodoniani uno dei libri più preziosi e rari nella storia della stampa. Avevo scelto Bodoni non solo per vicinanza e familiarità ma soprattutto per amore e interesse in un aspetto della cultura, la grafica, che al limite fra arte e industria ebbe in questo grande innovatore un protagonista fondamentale. Credo che Bodoni vada riscoperto con l’occhio smaliziato da altre esperienze visuali. Prendiamo un fenomeno come la Pop art: Bodoni, neoclassico, ne condivide l’idea portante, il desiderio del segno, nel suo caso la lettera, di liberarsi dal normale contesto per vivere in una dimensione autonoma e fantastica che solo la cultura rende possibile.
I criteri di valutazione suggeriti da queste esperienze pretendono un riesame della grafica bodoniana in cui il giudizio deve essere qualcosa in più di quello riferito al l’opera nei suoi limiti storici e funzionali. Il suo valore è da individuare nella scelta che, superando gli aspetti pratici, determina una nuova poetica, ove il segno vive libero da ogni funzione col solo limite della propria capacità estetica. Il Manuale che la vedova volle con amore e tenacia portare a termine e presentare quale postumo monumento del lavoro del marito fu, anzitutto, il campionario dei caratteri che la Stamperia possedeva. Per la sua forma antologica ha il valore di documentazione ricca e completa e per la sua struttura funzionale rappresenta la testimonianza più commovente e magica del superamento di questo destino utilitario. I suoi limiti estetici non sono nemmeno quelli dell’industrial design, il cui compito immediato e la materia prima impiegata spesso tolgono quell’autonomia che i caratteri di Bodoni invece hanno, anche se nati con un destino industriale. Bodoni ha rinnovato la grafica senza cercare lo stupore o l’invenzione cari allo sperimentatore d’avanguardia, ma lavorando con rigore e tenacia, usando nelle sue scelte cultura e sensibilità, «fantasia» com’egli afferma. Nella sua celebre prefazione al Manuale ci dice: «Il primato dei pittori è dovuto a Omero per quella purpurea striscia di sangue nereggiante sopra un fianco d’avorio sì spiccatamente da lui coloritaci alla fantasia, dove pure non d’una donzella ferita egli canta ma del non più giovane Menelao». Così è la sua grafica, sangue nereggiante sul piano candido d’avorio. Questo è forse il limite dell’estetica bodoniana, troppo raffinata per evitare che intelligenza ed esasperata eleganza fossero il proprio limite. La pagina del piccolo Manuale del 1788 – Saluces ma chère patrie – è il risultato di questa sua raffinata fantasia. L’intimismo del testo, l’eleganza del grosso corsivo da cancelleria che nella "esse" finale di Saluces diviene improvvisamente piccolissimo, l’aulico gioco dei volumi, neri e bianchi, fanno di questa pagina una chiara testimonianza del "bello" di Bodoni, sempre pensato e commosso, sempre rigorosamente neoclassico.
Il Manuale del 1818 è la conclusione della sua attività. Già molti anni prima Bodoni vi lavorava come a un punto fondamentale della sua vita, era ormai il suo sogno ultimo, il suo testamento d’orgoglio presso i posteri, la grande preoccupazione della sua vecchiaia, certo il suo ultimo attimo di dolore. Sono oltre 650 tavole ove i caratteri, succedendosi in un impercettibile aumento di corpo, ingannano sulla loro reale dimensione, quasi una magica scenografia, la stessa di quel Teatro Farnese finto e irreale che fiancheggiava la sua officina. Sono migliaia di segni, come nessuna fonderia ebbe mai, dai magici esotici ai grandi Cirillici, essenziali come marchi, dal Malabarico al Gotico d’Ulfila, dal Tartaro al Greco, il Greco della più bella Iliade del mondo.
Vissuto in epoca neoclassica Bodoni mirò a trasferire nel moltiplicato universo dei caratteri mobili la nitidezza, la semplicità e la leggibilità del carattere lapidario romano, superando in bellezza i concorrenti europei, Didot, Baskerville, Ibarra...
Sbaglia, oggi, chi gli rimprovera la "leggerezza" di alcuni testi, o i fogli volanti d’occasione, spesso frivoli e senza interesse. Non intuisce che il suo scopo non era quello di diffondere contenuti ma di creare magnifici alfabeti e il loro uso nella pagina stampata, dando origine a quell’arte grafica che prima di lui non esisteva.
Riassumendo i 500 anni di Storia della comunicazione, possiamo dire che Gutemberg fu il tecnico, Aldo l’intellettuale, Bodoni l’esteta, Steve Jobs l’imprenditore.
La ristampa del grande Manuale del 1818 fu il mio primo libro da editore, il più straordinario, e anche l’inizio della mia passione bibliofila che mi spinse a collezionare con costanza e testardaggine le opere di Bodoni. Ne ho riunite più di mille, e continuo imperterrito la ricerca e l’inseguimento delle poche che mancano alla mia biblioteca, come per esempio l’Essai des Caractères Russes, del 1782, di cui Bodoni tirò pochissimi esemplari o il Manuale del 1788, in quarto.