Michele Brambilla, La Stampa 6/10/2013, 6 ottobre 2013
TRAGEDIA INFINITA
Il 1963 è un anno speciale. Il mondo perde John Fitzgerald Kennedy e Giovanni XXIII, il Papa buono.
In Italia Aldo Moro forma il primo governo di «centrosinistra organico», con ministri del partito socialista.
Produciamo un milione e 105 mila automobili all’anno: la Fiat 500 costa 450 mila lire. Un operaio guadagna 60 mila lire al mese. Si avvertono i primi sintomi dello stress ed Ernesto Calindri suggerisce, al Carosello, di bere Cynar contro il logorio della vita moderna.
Nasce il premio Campiello: Primo Levi, con «La tregua», vince la prima edizione. Arriva nelle sale «8 e mezzo» di Federico Fellini: sarà premiato con l’Oscar. Il Milan è la prima squadra italiana a vincere la Coppa dei Campioni: insomma anche nel calcio stiamo diventando un grande Paese.
L’Italia cerca di entrare nel gruppo delle potenze industrializzate. Sono gli anni del «boom», e qualcuno parla di miracolo italiano. Non abbiamo il petrolio, ma gli ottimisti dicono che è l’acqua il nostro oro nero: sfruttando la potenza di fiumi e torrenti che cadono dai monti, otteniamo energia pulita a costi relativamente bassi. È in questo contesto che nasce la tragedia del Vajont.
Il Vajont è un torrente di 14 chilometri che nasce dal Col Nudo (2.472 metri) nelle Prealpi Carniche, e confluisce nel Piave di fronte a Longarone. È qui, al confine tra le provincie di Belluno e Udine (oggi Pordenone), che c’è un immenso avvallamento naturale che potrebbe diventare un formidabile bacino di acqua da trasformare in energia. Per chiudere questo bacino bisognerebbe, però, costruire una grande diga davanti al paese di Longarone. Il primo progetto è addirittura del 1929, firmato da Carlo Semenza, un ingegnere, e Giorgio Dal Piaz, un geologo; quello esecutivo è del 1937. Ma solo nel 1956 la Sade, Società Adriatica di Elettricità, può cominciare i lavori.
L’operazione ha un nome, «Grande Vajont», e una storica ambizione: si vuole costruire la diga ad arco più alta del mondo. E quando sarà ultimata, nel 1959, lo sarà davvero, con i suoi 261 metri e 60 centimetri. Dovrà contenere 150 milioni di metri cubi di acqua. Nel 1960 la diga e il bacino idroelettrico entrano in funzione. È un momento di grande orgoglio italiano.
Alle 22,39 del 9 ottobre 1963 i longaronesi sono già a letto oppure al bar davanti alla televisione: si trasmette Real Madrid-Rangers Glasgow di Coppa dei Campioni. Dal monte Toc si stacca una colossale frana di 260 milioni di metri cubi che precipita nel lago artificiale del Vajont. La diga tiene, ma un’ondata alta più di 100 metri la scavalca. Cinquanta milioni di metri cubi di acqua - preceduti da uno spostamento d’aria due volte più potente di quello provocato dalla bomba atomica di Hiroshima - si abbattono nella valle del Piave, sommergendo Longarone e le frazioni di Rivalta, Pirago, Faè e Villanova. Vengono colpiti anche i Comuni di Castellavazzo e Codissago. Più in alto - sopra la diga e dall’altra parte, nella valle del Vajont - un’altra onda risparmia i centri più grossi, Erto e Casso, che formano un unico Comune, ma non le frazioni di Frasègn, Le Spesse, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. Tra i paesi colpiti, quasi a segnalare una firma del demonio, ce n’è anche uno che si chiama Cristo.
Un attimo dopo l’onda, solo il silenzio regna nelle due valli del Piave e del Vajont. «Avevo 12 anni ed ero a casa - mi racconta Micaela Coletti, di Longarone -. Eravamo in otto. Cinque figli più i genitori e la nonna. Mio papà lavorava in diga e ricordo che quella sera tornò a casa alle 22,30, come sempre quando faceva il turno del pomeriggio. Io ero a letto e sentii un gran vociare in sala; poi, papà che ripartiva subito in auto. È strano, pensai. Un attimo dopo sentii un tuono che non si può raccontare e il letto che si spezzava in due. Che cosa ricordo? È difficile dire, ma ho in mente una sensazione strana: non sentivo più gli occhi. Alle tre o alle quattro del mattino videro un mio piede e una mia mano che uscivano dal fango, a 350 metri di distanza da casa mia. Mi tirarono fuori. Poi passai tre mesi in ospedale. Ho perso mio papà, mia mamma, mia nonna e una sorella di 14 anni».
Mi mostra la ricevuta del risarcimento che ebbe nel 1969: tre milioni e 100 mila lire per il papà, due milioni e 700 mila lire per la mamma, 800 mila lire per la sorellina. Poi la nonna, la casa, le lesioni riportate: in totale il Consorzio per i danneggiati della catastrofe del Vajont con sede in Longarone pagò 6.817.500 lire. Comprensive di interessi e spese legali, e con la clausola di «non aver più nulla da pretendere».
Sul luogo della tragedia accorsero grandi giornalisti. Indro Montanelli, Dino Buzzati e Giorgio Bocca scrissero che la diga aveva tenuto, e che era colpa della Natura, non dell’uomo. Era, e sarebbe rimasta a lungo, la tesi prevalente: fatalità. Ma già l’11 ottobre La Stampa intitolava così il suo editoriale: «Non solo fatalità».
Se è vero che spesso si abusa dell’espressione «una strage annunciata», nel caso del Vajont la responsabilità umana non è un sospetto, ma una certezza. La gente del posto temeva la diga, forse perché nei nomi che i montanari danno ai loro luoghi c’è un’antica saggezza: «Toc» in friulano vuol dire «marcio» e «Vajont» in ladino vuol dire «va giù».
Ma c’erano anche segnalazioni precise da parte di illustri scienziati. Il geologo austriaco Leopold Muller aveva individuato e descritto con precisione la frana sul monte Toc, «a forma di emme, larga due chilometri», e aveva perfino quantificato la massa di terra che sarebbe precipitata nel lago artificiale: circa 200 milioni di metri cubi. La Sade gli chiese quali contromisure fossero possibili, e lui rispose che la soluzione era una sola: lasciar perdere, abbandonare l’impresa.
Ma come! Dopo tanto lavoro e tanti investimenti? E rinunciando a così ingenti profitti? La Sade cercò altri periti e si rivolse a Edoardo Semenza, che era figlio del primo progettista della diga, e forse per questo ritenuto condizionabile. Ma anche Edoardo Semenza arrivò a scongiurare la Sade di desistere: troppo pericoloso.
Niente. Il bacino andò avanti lo stesso. Anche dopo il 4 novembre 1960, quando una parte della frana del Toc cominciò a staccarsi e precipitare nel lago. Anche nel 1962, quando l’impianto passò - in seguito alla nazionalizzazione dell’energia elettrica - dalla Sade all’Enel. Era un affare troppo grosso e non si poteva rinunciare.
Ci sono stati alcuni processi con poche e lievi condanne. Uno degli imputati si suicidò. Qui in valle tutti sono convinti che giustizia non è stata fatta. Quanti furono i morti? Ancora oggi nessuno lo sa. C’è chi dice 1909, chi 1917, chi 1918, chi arriva a 1994. Al cimitero di Fortogna, una frazione di Longarone, le lapidi sono 1910. Molte bare, comunque, sono vuote: i corpi ritrovati e riconosciuti furono solo 726. Si sa però quanti bambini passarono dal sonno al paradiso: 487. All’ingresso del sacrario è scritto: «Prima il fragore dell’onda. Poi il silenzio della morte. Mai l’oblio della memoria».
Oggi Longarone è stata ricostruita, anche con i 77 miliardi di lire che il Comune ebbe in risarcimento nel 1999 da Enel e Montedison. Le nuove case sono un altro mondo, rispetto a quelle vecchie rimaste in piedi nella parte alta del paese: si vede come una linea di netta cesura fra Longarone vecchia e Longarone nuova, ed è un segno che fa male. Ma ancor di più è un segno - in alto, ben visibile da tutto il paese - «lei», la diga.
È ancora lì, macabro monumento; incombe, e ricorda agli uomini che la Natura è sì al loro servizio, ma a patto che non se ne faccia scempio.