Maurizio Molinari, La Stampa 6/10/2013, 6 ottobre 2013
L’ORGOGLIO DI GIACARTA PER BARRY IL PRESIDENTE “È UNO DEI NOSTRI FIGLI”
Al civico 22 di Dempo Street un cancello di legno bianco chiuso senza serratura introduce alla casa dove Barack Obama visse dal 1967 al 1971, quando tutti lo chiamavano Barry. Si tratta di una casa più piccola rispetto alle eleganti ville che la circondano: ha solo poche stanze pianoterra sotto un tetto a mattoni rossi, nel cortile vi sono tronchetti di palme e piante grasse, e alla sinistra della porta d’entrata spicca un artefatto indigeno in ferro che evoca Ann Dunham, la madre antropologa dell’attuale presidente degli Stati Uniti.
Ad accompagnarci oltre il cancello su Dempo Street è un sessantenne di nome Agus che ha sempre vissuto in questo elegante quartiere di Giacarta Sud, costruito in gran parte dagli olandesi e abitato in prevalenza da stranieri. «Ricordo il piccolo Barry con il padre indonesiano e la mamma bianca» dice Agus, vantandosi di essere «fra i pochi a poter dire di essere entrati in questa casa». E per dimostrarlo sfodera un Blackberry sul quale ha memorizzato come salvaschermo una foto in bianco e nero «che ho da sempre» in cui si vede Barry bambino seduto sul divano di casa a fianco della madre che ha in braccio la sorellina Maya nata da poco, con sul lato opposto il padre acquisito Lolo Soetoro. «Siamo molti qui attorno al parco Amir Hamzah ad avere ricordi personali di Barry» aggiunge Agus, sottolineando che «gli vogliamo bene perché è uno di noi, cresciuto qui, nel nostro stesso parco».
Al suo fianco c’è Hadian, che di anni ne ha 43 e Barry non lo ha mai incontrato ma sembra sapere tutto della casa al numero 22: «In America c’è chi dice che viveva in una villa grande andata distrutta, non è vero, guardate qua, è una casa semplice e intatta, che oggi appartiene al governo, la cui intenzione è preservarla». Dall’indomani dell’elezione di Obama, nel novembre del 2008, i vicini di Dempo Street affermano che le autorità hanno preso possesso della casa, erigendo fra il cancello sulla strada e il cortile un secondo portone in metallo, con sopra filo spinato, per tenere lontani i curiosi.
Quando nell’ottobre 1967, a 6 anni compiuti, Obama arrivò qui con la madre dalle Hawaii, andò a studiare nella scuola «San Francesco di Assisi», non lontana da Dempo Street. La «Sekolah Asisi» è immersa in un labirinto di stradine e viottoli popolati da venditori ambulanti di ogni sorta di cibo e all’interno del cortile campeggia un grande campo da basket dove, secondo un’alunna di 16 anni che preferisce non dare il nome, «Barry già da piccolo provava a far rimbalzare la palla e c’è chi racconta che non avesse troppo successo». I francescani che ebbero il bambino Barry Soetoro per due anni nelle loro classi mantengono in materia un profilo basso: nella scuola non vi sono scritte o altri segni esteriori che lo celebrano anche se studenti e insegnanti si mostrano assai consapevoli del «Barry che studiò nella scuola intitolata al Santo di Assisi», come riassume il custode all’entrata.
Opposta invece la scelta della scuola elementare indonesiana «SDN Besuki» nel quartiere di Menteng che Barry frequentò nei due anni seguenti, quando la madre venne assunta dall’Associazione di amicizia Usa-Indonesia, lavorando spesso nell’ambasciata americana che si trova proprio in fondo alla strada della scuola. Davanti al cancello d’entrata una placca argentata evidenzia che «Barack Hussein Obama II, il 44° presidente degli Stati Uniti studiò in questa scuola» e dentro il cortile della scuola un ritratto di Obama campeggia sul murales che copre un’intera parete, riassumendo agli studenti i valori di una scuola che sfoggia la propria moschea e resta di élite, riflettendo un quartiere dove si trovano ambasciate e uffici del governo.
«Barry è come uno dei nostri figli» dice Marni, venditrice di profumi alle famiglie degli alunni, allontanando con un gesto di insofferenza le polemiche martellanti sui media locali per la mancata partecipazione di Obama al summit dell’Apec: «La politica non ci interessa, Obama qui è amato perché è indonesiano come noi» aggiunge Marni, con un crescendo di toni che attira l’assenso dei passanti. A evidenziare una passione per Obama che stride con le aspre contestazioni di cui è oggetto in America è la statua bronzea dedicata al Barry nel cortile della scuola. Mostra un bimbo con la mano protesa in avanti - «verso il futuro» spiega uno dei bidelli - e nella base ricorda «il giovane ragazzo di nome Barry che giocava con la mamma Ann nel quartiere di Menteng e una volta cresciuto è diventato il presidente degli Stati Uniti e premio Nobel per la pace».
Se Agus e Marni continuano a chiamarlo Barry, come fa l’ex compagno di scuola Onny Padmo in alcune interviste, è per sottolineare il legame ancora vivo con il bambino di allora, rivendicando una sorta di primogenitura dell’Obamaland che ha conquistato per due volte l’America, imponendo un modello di società post-razziale specchio di città come Giacarta, dove alunni di fedi e razze differenti si ritrovano a giocare assieme sui campi di basket nei cortili scolastici.