Antonio Gnoli, la Repubblica 6/10/2013, 6 ottobre 2013
UMBERTO ORSINI
Non avevo idea di quanto Umberto Orsini fosse bravo, fino a quando non mi capitò di assistere a Copenaghen, una pièce in cui due fisici di fama internazionale, ormai morti, resuscitavano per essere interrogati sui destini della scienza e dell’Occidente. Orsini interpretava Nils Bohr (Massimo Popolizio era Werner Heisenberg) e nello spazio del Teatro India a Roma colsi da parte del pubblico un senso di gratitudine, come accade talvolta, quando un testo teatrale si avvicina con sensibilità alle questioni fondamentali della vita. Nell’approssimarsi degli ottant’anni, Orsini non ha smesso di interrogarsi sul senso di alcune cose che accadono. E, ai miei occhi, si produce l’immagine di un uomo il cui primo dovere consiste nel cercare delle forme neutre. Sonnecchia nelle sue parole una certa indifferenza. Come se le storie che ci racconta non lo riguardassero veramente, come fossero accadute a qualcun altro. Lo studio dove ci incontriamo – nella bella zona di Monteverde – ha una netta predominanza di bianchi: i divani, le pareti, le porte vagamente giapponesizzanti. «Il bianco è un non colore, colpisce senza aggredire, porta in sé l’immagine di un io profondo al quale si accede solo rinunciando al proprio», dice, con l’aria di non dire.
E lei ha rinunciato al proprio Io?
«Un attore deve farlo per forza, anche se quell’“Io” non ha nessuna intenzione di sparire. È un’incessante dialettica tra il me reale e la finzione che ogni volta allestisco. Da giovane non avevo nessuna vocazione teatrale. Ero disinvolto, carino. Forse, imitando in ciò mio fratello che poi divenne pubblicitario, scelsi il teatro. Venni a Roma. Mi iscrissi all’Accademia. Ma senza il fuoco sacro. Nessuna determinazione. Al massimo, pensavo, farò esperienza».
Insomma, come si dice oggi sbrigativamente, cazzeggiava.
«In realtà cercavo un baricentro e alla fine l’ho trovato in un mestiere che non è un mestiere».
Definizione singolare.
«Nel senso che è un mestiere basato sul nulla. Il giorno prima non sei un attore, il giorno dopo puoi diventarlo. Perché alla fine sul palcoscenico fai le stesse cose che si fanno nella vita: parli, urli, gesticoli, cammini».
Abbasserebbe di così tanto la figura dell’attore?
«Ma no. C’è un testo, una voce che è uno strumento, c’è una tecnica che può perfino essere sorprendente. Ma quello che voglio dire è che all’attore va strappata l’aura mitologica: il senso di diversità assoluta, l’esser fuori dalla storia. Poi, come è ovvio, ognuno ha la propria biografia da difendere».
E la sua com’è?
«Lunga, e dopotutto soddisfacente. All’inizio recitai per istinto e con spudoratezza. Poi mi affidai alla tecnica. Oggi ho l’impressione di essere più emotivo. Il mestiere si impara. Ma quando lo hai appreso, magari in tutte le sue sfumature, cosa accade? A volte ho noia di me stesso, della ripetizione di certi gesti, del logorio del nuovo che non è mai nuovo abbastanza da riuscire a sorprendere. Il palcoscenico è un grande esercizio di atletismo. Si recita se si è in buona salute».
Ce l’ha con l’ideologia del “mostro sacro”?
«Ma no! So riconoscere un grande attore. Lo furono Romolo Valli e Tino Carraro. Bravissimo Gian Maria Volonté, con il quale cominciai a lavorare. Però, il più grande di tutti, almeno negli ultimi cinquant’anni, è stato per me Gianni Santuccio. Era totalmente inconsapevole della sua bravura. Spesso in scena dimenticava le battute e aveva bisogno del suggeritore. Ma fu straordinario come pochi».
Che ricordo ha di Volonté?
«Veniva dal teatro ambulante, dalla recitazione girovaga. Lì apprese benissimo il mestiere. Era assai meno bravo come regista. Fu un clamoroso insuccesso il suo Girotondo di Schnitzler. Volle fare teatro d’avanguardia dieci anni dopo che l’avanguardia era morta. Poi, ci fu per lui la meravigliosa stagione cinematografica».
Lei non ha mai fatto regie?
«Quasi mai. Ci sono registi straordinari come Ronconi, o come è stato Visconti. Meglio affidarsi a loro, piuttosto che rischiare il ridicolo. D’altronde, so vedere un errore in scena, ma non so inventare ».
A proposito di “stagione cinematografica” lei ha fatto parecchi film.
«Ne salverei cinque o sei. Esordii al cinema con un film di fantascienza, Il pianeta degli uomini spenti, di Antonio Margheriti, noto come Anthony Dawson. Era il 1961. Allora c’era già l’uso di americanizzare i nomi dei registi e degli attori. La moda dilagò con gli spaghetti western. Comunque il film di Margheriti era a suo modo geniale. Ho saputo che aveva entusiasmato perfino Stanley Kubrick».
Ma lei ha anche preso parte ai film di Emmanuelle.
«In quel periodo avevo lavorato in alcuni importanti spettacoli teatrali. Poi, improvvisamente scese il silenzio. Il telefono taceva. Per un uomo di spettacolo quell’attesa è tremenda. Fui preso dall’angoscia. Quando una mattina ricevetti una telefonata. Fanno il seguito di Emmanuelle e vogliono cambiare marito, pagano bene, Umberto te la senti? Era il mio agente. Io dissi: dove si gira il film? A Bali. E c’è sempre Sylvia Kristel come attrice? Sì. Accettai. La prima scena fu praticamente una lunga sequenza erotica. Le Figaro stroncò il film e in particolare me: mai un attore di teatro, scrissero, era caduto così in basso».
Le sue quotazioni risalirono con Visconti.
«Girai con lui due film. Allora ero solo un bel ragazzetto cresciuto, carino, non bellissimo. Visconti – che guardava anche la televisione – si era interessato a me che interpretavo I fratelli Karamazov. Gli devo molto. Mi tolse quell’aria permanente di ragazzo. E finalmente crebbi professionalmente».
In che senso si interessò a lei?
«Guardi, Visconti, di cui erano note le tendenze omosessuali, era sessualmente un predatore. Purtroppo per lui ero decisamente etero. E poi, in quel momento, aveva un bel po’ di problemi con Helmut».
Helmut Berger, intende?
«Sì, litigavano spesso. Volevo bene a Helmut, un uomo fragilissimo che nel tempo si è perduto. Quando apprese della morte di Luchino eravamo casualmente insieme a Parigi, all’hotel San Régis. Ricevette quella telefonata di lutto e ricordo che un attimo dopo lanciò un grido pazzesco. Davvero, pensai, era il figlio mancato. La famiglia Visconti lo considerò sempre un intruso. È il destino degli amanti».
A proposito di amanti si dice che lei ne abbia avute tantissime.
«Oddio no. Qualcuna certo. E poi compagne».
Da dove vuole cominciare?
«Ma a chi interessa, scusi».
Fa parte di una piccola storia del costume. Si dice per esempio che una sua vicenda d’amore abbia ispirato Fellini in un episodio della Dolce vita.
«Ah, la Anouk Aimée! Si riferisce alla mia storia burrascosa con Rossella Falk. Ero entrato, molto giovane, nella sua compagnia; mi innamorai di brutto di questa donna bellissima che aveva otto anni più di me. Legammo quasi subito. Solo che lei, contemporaneamente, stava con Renato Salvadori. Perciò un giorno chiamai Renato, invitandolo a pranzo. Poi gli dissi: guarda, bisognerebbe fare in modo che Rossella scelga uno di noi due».
E lui come reagì?
«Al momento non disse niente. Poi la sera ci aspettò sotto casa mia. Abitavo allora a viale Tiziano, una strada a quel tempo frequentata di notte dalle puttane. Rossella, con la sua macchina, giunse un attimo prima di me. Renato l’affrontò e le tirò due pugni in faccia. La trascinai in casa sanguinante. Successe un putiferio. Intervenne perfino la polizia, immaginando un regolamento di conti tra due papponi. Alla fine le cose si chiarirono ma la storia tra me e Rossella finì. Col tempo siamo diventati molto amici. Ho sofferto per la sua morte. La linea dell’invecchiamento quando si assottiglia può essere terribile. Ci sentivamo spesso al telefono. Lo faccio con quelli che sono stati i miei vecchi e grandi amori. Mi capita ancora di sentire Helen Kessler».
Un’altra storia burrascosa?
«No, anzi. Siamo stati insieme per 12 anni. Quando la prima volta vidi le due gemelle chiesi ad Antonello Falqui quale delle due non era fidanzata. Mi rispose che Alice stava con Enrico Maria Salerno ma che Ellen era libera. Le feci una corte serrata. E alla fine riuscii a conquistarla. Le Kessler sono state un grande fenomeno televisivo. Ho ammirato il loro professionismo, la loro tenacia, il loro sacrificio. Erano due sorelle poverissime, fuggirono da Lipsia, allora nella Germania dell’Est, e andarono ad Amsterdam a studiare recitazione e danza».
E con Salerno vi vedevate?
«Enrico è stato uno dei più grandi attori che abbia conosciuto. Ma la sua intelligenza aveva troppe pause. Era capace di dire o fare una cazzata ogni mezz’ora. E poi con le donne era un vampiro».
Nel senso?
«Le prosciugava, intendo sentimentalmente. Facemmo tutti e quattro un viaggio in Giappone. Enrico, che si riteneva un intellettuale, diceva spesso cose spiazzanti. Visitammo Tokyo e fu bellissimo. Poi andammo a Kyoto. Una sera Enrico litigò con Alice. E la mattina dopo non lo vedemmo più. Io chiesi ad Alice: ma dov’è Enrico? Mi ha detto che andava a comprare le sigarette. A Kyoto? Dissi io, perplesso. Che c’è di strano, rispose l’ingenua. Mi lasciò con le due gemelle, una in lacrime e l’altra arrabbiatissima e il conto dell’albergo da pagare».
Cos’è l’amicizia tra due attori?
«Ci sono gradi diversi di coinvolgimento. C’è la stima, a volte la cialtroneria, altre ancora l’ammirazione. L’amicizia vera è un dono raro. La condivisi con Corrado Pani. Mi mancano molto le sue telefonate mattutine».
Cosa non ama del suo mestiere?
«La velleità e l’eccesso. Se l’eccesso non è sorretto dalla genialità meglio lasciar perdere».
Carmelo Bene era eccessivo?
«Lo era, lo era. L’ho incontrato solo due volte. La prima mi disse: sei un attore pensante. E non capii se era un insulto o un complimento. La seconda volta in un ristorante, era molto depresso. Amava molto quello che faceva. Non lo capivo, ma al tempo stesso sentivo che il suo lavoro era importante».
Se non avesse fatto l’attore?
«Guardi, sono nato a Novara. Mio padre aveva alcuni ristoranti, mia madre faceva la cuoca. Io studiai da notaio. Entrai a far pratica in uno studio e il mio compito a un certo punto fu di leggere gli atti notarili al posto del notaio che aveva un cancro alla gola. Fu così che mi accorsi che anche un rogito può essere letto come una pagina di Shakespeare. A volte, penso che se avessi fatto il notaio qualcun altro avrebbe preso il mio posto. Scegliendo di fare l’attore ho impedito che qualcun altro lo facesse».
Cos’è, un’ammissione di colpa?
«No, è che mi piace fantasticare sulle possibilità che la vita ti offre o ti toglie. E pensare all’assenza».
Alle pareti bianche di questa casa?
«Anche, i colori ci assomigliano. E un attore deve potersi misurare con l’assenza, con il vuoto. Più invecchio e più penso che la verità sia togliere peso all’esperienza. Gli uomini, stranamente, ci riescono meglio delle donne».
Perché?
«Perché sono più deboli. Leggevo l’altro giorno una frase di Seneca: “Avere la debolezza di un uomo e la grandezza di un Dio”. Penso che riassuma perfettamente il nostro agire. Siamo niente e vorremmo essere tutto. In fondo solo il teatro ci può salvare».