Francesca Giuliani, la Repubblica 6/10/2013, 6 ottobre 2013
FRANCESCO VEZZOLI
Scarpe rosse, occhiali a specchio e ciuffo, Francesco Vezzoli attraversa a grandi passi il foyer del Maxxi di Roma dove è allestita (fino al 24 novembre) una grande monografica della sua arte, prima tappa di Trinity, trilogia che prevede da qui a fine anno ancora due appuntamenti al Ps1-Moma di New York e al Museum of contemporary art di Los Angeles. Per l’artista oggi quarantaduenne che ha esposto nei templi del contemporaneo, dalla Tate di Londra al Whitney di New York, la consacrazione planetaria è stata orchestrata tra velluti rossi e candidi stucchi, sempre molto riecheggiata da web, giornali, tv. Uno scenario di cui parla volentieri, raccontando la storia del suo helzapoppin’, qualcosa di mai visto prima e che ormai è lui e lo rende riconoscibile ovunque. La sua arte iniziata con nostalgici ricami è diventata sequenze di film ed è approdata a efebici marmi quasi senza volto: un Glamorama costellato di protagonisti celebri. Come nel video Greed (2008), con Natalie Portman e Michelle Williams che reclamizzano un profumo immaginario ma multisenso (“greed” vuol dire “brama”); o nei reality show come Comizi d’amore (omaggio pasoliniano datato 2010) o ancora nel film Democrazy (2007) in cui Sharon Stone e Bernard Henri-Lévy si contendono la presidenza degli Stati Uniti, sotto la regia di Roman Polanski... Il tutto frullato nel vortice di un’estetica estrema che lo ha portato dall’altra parte della terra a farsi amici potenti e divine, icone e popstar come Lady GaGa. Tutte, dice, conquistate «inviando semplici mazzi di fiori, convincendole di quanto fossero insostituibili in un mio progetto».
Ora, archiviate le stagioni ruggenti trascorse a Los Angeles, ha scelto di vivere a Milano dove assicura persino di uscire poco la sera: «Ho già dato». Dopo tanta ridondanza sembra essere il basso profilo la sua cifra d’elezione. E però è subito chiaro, per quanto si sforzi a un tono dimesso, che si tratta dell’ennesima strategia e di un consapevole cambio di passo nel suo lavoro: «Da Brescia a Hollywood e ritorno, vorrei che fosse il mio epitaffio».
Ma procediamo con ordine. «Tutto è cominciato quando avevo quattro, forse cinque anni. Mi ricordo i miei genitori andare in edicola, comprare montagne di quotidiani. L’Unità, Il manifesto, La Repubblica. Io invece ero ammaliato dalle copertine di Tv Sorrisi e Canzoni, da quei colori, dalle facce. Loro ascoltavano il jazz concettuale di Keith Jarrett, io andavo pazzo per le canzonette di Viola Valentino. I miei, i loro amici, mi prendevano in giro. Ma oggi è chiaro che avevo ragione io e che quella generazione ha perso: i loro ideali, gli idoli, il pensiero non hanno portato al mondo che avrebbero voluto». Mentre è davvero un altro mondo quello che il ragazzo Vezzoli ha costruito intorno a sé. Ormai si è lasciato alle spalle i famosi ricami all’uncinetto con cui ha esordito, ispirato dalle donne dei paesini, un retroterra acquisito che definisce come l’inizio di «un lavoro molto serio sulla mania della celebrità» ovvero sull’attrazione per il divismo, sull’inconsistenza dell’immagine, sulla vanità della ribalta mediatica, che poi altro non è — senza scomodare troppa psicoanalisi — che un’estensione del potere.
In che modo il fanciullo di provincia col mito di Renato Zero («perdere un suo concerto per andare al mare a Riccione con la nonna e le sue amiche è stato un dramma della mia adolescenza ») sia diventato un artistar è una vicenda che si scrive lungo un paio di decenni. «Londra è stata per me il fulcro dell’attrazione, sono partito alla scoperta della club culture, nel pieno degli anni Ottanta, allora ero innamorato di un deejay». Qui di giorno studia alla Saint Martin’s School of Art, che gli garantirà una prima importante borsa di studio, e di notte si tuffa in un mondo al massimo rigoglio creativo. «Ricordo una pazzesca performance di Leigh Bowery, un mito in quegli anni, poi morto di aids nel 1994 che, in uno dei suoi travestimenti-spettacolo, partoriva la moglie Nicola. Era il Birth show, un’immagine archetipica, per me rimasta indelebile. Ero un ragazzo, mi piacevano tante cose, tutto mi stregava e fin da allora un punto mi risultò chiarissimo: quando lavoro mi devo divertire. Sarà anche per questo che cambio. Sempre».
Silvana Mangano, Valentina Cortese, Franca Valeri, Iva Zanicchi, Jeanne Moreau, Catherine Deneuve, Sharon Stone, Cate Blanchett, Helen Mirren, Courtney Love e anche Nicky Minaj, ultima popstar (Ultimate Makeover, 2011). Dopo Londra, le dive sono state la sua ossessione e il propellente verso gli Stati Uniti dove ha poi trionfato. Sono nati così molti dei lavori che lo hanno reso famoso fino a farlo entrare nella scuderia di Larry Gagosian, forse il gallerista più potente del mondo, fino a diventare amico-amico di una lady come Miuccia Prada, collezionista di molte sue opere, e a incontrare personalmente tutte le dame del grande schermo, in un dongiovannesco e infinito catalogo. Ma “Each man kills the thing he loves” cantava Querelle de Brest di Fassbinder nell’82 interpretato proprio da Jeanne Moreau, e così Vezzoli oggi dice: «Quella per me è un’esperienza conclusa, le dive non mi emozionano più». Da groupie cresciuto adesso assicura di aver sempre evitato di spingersi oltre quello che gli era utile al lavoro: «Non ho mai voluto stabilire un rapporto personale. Oltre l’immagine, queste donne sono come tutte le altre. Il loro dolore non può essere diverso». Ma, insistendo, alla fine qualche cedimento salta fuori. Eva Mendes per esempio: «L’ultima volta che l’ho incontrata le ho chiesto: ma come ci si sente al pensiero che tutti ti vogliono scopare? Mi ha risposto: “Se devo dirti la verità, è fantastico”. Proprio lei, che sta con il più fico di tutti, cioè Ryan Gosling». E poi, sopra a tutte, c’è la Moreau: «Sì, la più straordinaria è stata lei. Sarà che Truffaut è immenso e lei, in Jules et Jim, un mito».
E restando in odor di mito “la Moreau, c’est moi” potrebbe dire oggi Vezzoli, che esplorando un fronte più sobrio si è messo a creare statue bianche con il proprio volto rimandando a altri rispecchiamenti mitici fra citazioni di glittica tardo-repubblicana e mitologie imperiali, come Antinoo e Adriano che, languidi, si perdono uno negli occhi dell’altro. Ma anche le sue mitologie, oltre alle sue iconografie, si evolvono: «Preferirei andare a cena con Mark Zuckerberg che con Natalie Portman. E se devo citare qualcuno che adoro dico Almodóvar: un artista che sa parlare con dignità intellettuale di sentimenti. Sarà per questo che l’idea di incontrarlo mi terrorizza. Sempre mi ha appassionato Woody Allen: ci ha fatto ridere e piangere, ha saputo mescolare alto e basso, pensiero e corpo».
Vestiti i panni dell’artista maturo e sobrio, Vezzoli vive un po’ da immigrato di ritorno («Ma a Brescia no, non ci potrei più stare. Sono scappato da quella noia troppi anni fa. Ma la mia mamma me la porto con me ogni volta che posso») e passa il tempo tuffandosi in pile di autobiografie. In cui cerca una nuova risposta: «Voglio capire come sono andate le cose. Prendiamo De Sica: non è stato quello che un americano che ha visto i suoi film può pensare. Girava Ladri di biciclette e sperperava patrimoni al gioco. È un pilastro del Neorealismo ma la sua carriera è un assurdo ottovolante di alti e bassi». Poi, a riflettori spenti, in conclusione d’incontro, a proposito del “primo artista italiano”, confessa: «Cattelan è stato perfetto, geniale. Ha saputo smettere nel momento migliore ». E Vezzoli, dove sta andando? «Io? Vedo davanti a me molta ricerca. Sogno una vita tranquilla, lontano dai riflettori. Tra quindici anni sarò, soprattutto, levigatissimo».