Umberto Eco, la Repubblica 6/10/2013, 6 ottobre 2013
COSÌ ECO DIFESE LA ZUPPA EROTICA DI BIANCIARDI
Nel 1966 scrisse questa testimonianza critica su richiesta di Luciano Bianciardi. Lo scrittore toscano venne processato con l’accusa di “offesa al pudore” per il racconto “La solita zuppa” pubblicato da Sugar nell’antologia “L’arte di amare” insieme a testi di autori come Bevilacqua, Maraini, Parise. Tra i testimoni della difesa anche Oreste Del Buono, Libero Bigiaretti e Guido Piovene. Scrittore ed editore alla fine vennero assolti
MILANO 14.2.1966
Caro Bianciardi,
in merito alla tua novella La solita zuppa, vorrei fare alcune osservazioni di carattere stilistico (dato che la particolare strutturazione formale del soggetto ne determina gli effetti sul lettore).
La tua novella costituisce il triste monologo di un protagonista costretto a vivere in una società assolutamente simile alla nostra, salvo una piccola, fantascientifica variante: in essa non è un tabù il sesso, ma la nutrizione. Vi si possono commettere tutte le intemperanze amorose, sotto l’egida delle leggi e della morale, ma occorre invece prendere cibo nascosti nel gabinetto di decenza, legati monogamicamente a un solo piatto tutta la vita (non esiste divorzio) e cercando l’evasione in case di piacere dove la solita “maîtresse” introdurrà il cliente in un salottino privato annunciando “la fiorentina”, che ovviamente non è cortigiana toscana ma una doppia razione di bistecca.
La novella procede su questo binario tra mille invenzioni e coi risultati che è lecito attendersi dal meccanismo di rovesciamento: naturalmente l’autore deve nominare e descrivere organi ed atti sessuali così come li vede il protagonista, col casto distacco che noi dedichiamo alla lista delle vivande.
Non credo che la novella vada difesa dicendo che è un’opera d’arte, perché si tratta anzitutto di un arguto discorso di morale, di una paradossale meditazione etica. Tu hai utilizzato un “luogo” retorico vecchio di secoli, teorizzato già da Ernst Robert Curtius, e in Italia da Giuseppe Cocchiara nel suo libro dedicato all’artificio favolistico (dotto e popolare) de Il mondo alla rovescia. Immaginare il mondo alla rovescia significa capovolgere il comune andamento delle cose, e questo per diverse finalità moralistiche. Può servire a protestare contro l’ordine esistente per auspicarne uno diverso, o più semplicemente a insegnare a guardare comportamenti quotidiani, leggi e abitudini, con un occhio criticamente potenziato dal rovesciamento delle prospettive (così come Kandinskij, solo vedendo un suo quadro figurativo rovesciato, ha intuito un giorno la legittimità di un universo astratto di forme e di colori).
Si può rovesciare il mondo o rovesciare l’osservatore: Voltaire o Montesquieu, guardando la società dal diciottesimo secolo con gli occhi di un Siriano venuto dalle stelle, o di un Persiano venuto dall’Oriente, rovesciavano l’osservatore, e criticavano il mondo. Tu rovesci il mondo, e critichi implicitamente noi e te stesso in quanto osservatori. Così facendo sottoponi il tuo discorso, e gli oggetti che descrivi, a una sorta di curiosa distorsione semantica.
Infatti nel racconto gli organi o gli atti sessuali, esplicitamente nominati, non denotano organi o atti sessuali, ma “connotano” cibi e atti di nutrizione; mentre di converso i cibi e gli atti nutritivi descritti e nominati connotano organi ed atti sessuali. Avviene così che, quando un fatto sessuale rimanda a un significato gastronomico, è difficile esserne eccitati, perché la disparità tra il segno e la cosa provoca il riso, e distrugge ogni atmosfera favorevole al desiderio. Al contrario, potrebbe accadere quando il termine “bistecca” allude a qualcos’altro; ma anche qui la presenza volgare della bistecca, coi suoi odori e i suoi sapori, interviene come pesante ipoteca grottesca sulla realtà sessuale evocata, e dissolve ogni magia. Il riso, che è distruttore, può distruggere i valori morali ma distrugge anche, per usare una terminologia da censore, i disvalori immorali. Abbiamo cioè quello che nelle moderne teorie della comunicazione estetica si chiamerebbe “effetto di straniamento”.
Per cui ritengo assai difficile che qualche lettore si sia inurbanamente eccitato alla lettura di questo racconto: ma se è accaduto, allora è costui che deve essere convocato a giudizio.