Simonetta Fiori, la Repubblica 6/10/2013, 6 ottobre 2013
IL PROCESSO ALLO SCRITTORE
Il più intrepido si mostrò Giuseppe Ungaretti: non c’era processo che non lo vedesse accanto all’imputato, curvo e intabarrato, la testa candida pronta a scuotersi in difesa dell’insolito pregiudicato, sia che si trattasse di Schifano o Pasolini. In aiuto dell’autore di Ragazzi di vita si precipitò in tribunale perfino il principe Carlo Bo. E una memoria difensiva di Norberto Bobbio, che pure non stravedeva per Sartre, salvò dalla condanna il filosofo dell’esistenzialismo, trascinato in giudizio con la macchia di «onanismo e pederastia».
Scrittori alla sbarra. È un modo nuovo di riscrivere la storia letteraria, la scelta di un punto di vista che non è critico, geografico o linguistico ma solo giudiziario. Il pantheon culturale visto da una procura. Antonio Armano, giornalista “informato dei fatti”, ha raccolto oltre quaranta storie di Maledizioni in un documentatissimo saggio ora pubblicato da Aragno. Una galleria di narratori sciaguratamente finiti nelle mani di madri devote e di militanti del cattolicesimo più retrivo, quindi sottoposti al vaglio dei tribunali, cacciati dalle librerie, talvolta ripuliti da editor pudibondi, infine condannati o più spesso assolti nei vari gradi di giudizio. Da Arbasino a Moravia, da Bianciardi a Testori, da Malaparte a Morselli e Pasolini, l’elenco dei narratori “maledetti” include l’aristocrazia della cultura italiana, accanto ai classici Lawrence e Joyce, anch’essi trascinati postumamente davanti a un giudice per eccesso di ardore erotico. L’accusa? Quasi sempre la stessa. Oltraggio al pubblico pudore. Oscenità. Esibizione molesta dell’omosessualità. Motivo quest’ultimo che si rivelerà tra i più resistenti nelle carte processuali, l’unico che ancora permane in un paese che legge le Sfumature ma sogna la famiglia da Mulino Bianco. E forse non è un caso che gli ultimi due processi letterari più clamorosi, tra gli anni Ottanta e Novanta, abbiano coinvolto Busi e Tondelli, che non hanno mai fatto mistero delle proprie scelte sessuali.
È il paese del “purché non diano fastidio” quello che affiora dalla ricca ricognizione su letteratura e codice penale. Un’Italia che non si stanca mai di mostrarsi arretrata, disposta a qualsiasi sacrificio — diceva Brancati — pur di rimanere vecchia. Ma prima di invocare il garantismo, occorre mettere le mani avanti. Nel corso di mezzo secolo, l’unico che possa vantare il primato della condanna definitiva porta il nome dimenticato di Piergiuseppe Murgia, cometa della scena culturale. Riuscì a scamparla — ma solo in appello — anche la scrittrice Milena Milani, passata alle cronache giudiziarie per aver introdotto nel ’64 le prime mestruazioni nella letteratura italiana. «Ciao, avanzo di galera», la salutava Montanelli, che però aveva incoraggiato le manette per Aristarco e la sua Armata s’agapò. Generalmente trionfava l’happy end. E qualche volta l’assoluzione cum laude.
Dal censore al recensore, il passo poteva essere breve. Per Il Muro di Sartre, il giudice Benedicti ottiene l’archiviazione citando Dossi. E la requisitoria del pm Cerrato sulla Vita interiore è giudicata da Moravia — grande habitué delle aule di giustizia — una delle cose migliori mai scritte su di lui. La magistratura, in sostanza, si rivela spesso più illuminata rispetto a una comunità ancora molto provinciale, bacchettona e almeno fino alla fine dei Sessanta facile a indignati rossori. La stessa che nel ’52 trascina Arbasino nel Tribunale di Voghera per un raccontino satirico sui vezzi da parvenu d’una famiglia assai nota in città. «Pura goliardia», sentenziò la Corte che chiese il proscioglimento.
Oggi può far sorridere quell’Italia in bianco e nero, più bigotta ma anche più colta, in cui il libro è ancora il centro del mondo e le librerie sono frequentate dai commissari Zappalà alla ricerca dei Chatwin messi all’indice. «Mbé, che ddici? ’O sequestriamo?», incoraggia la moglie d’un magistrato famoso per i provvedimenti restrittivi. E i tavoli delle preture vanno affollandosi delle fantasie sessuali di Molly Bloom e degli amplessi di Lady Chatterley. Un caso giudiziario quest’ultimo non solo italiano, come ci spiega il Nobel Coetzee, perché Lawrence trasgredisce almeno tre regole fondamentali: «è adulterino», «viola i confini di casta» e «a volte è contro natura ». La battaglia legale impegnò a lungo editori inglesi e americani, tanto da indurre Anthony Burgess a una variante ingentilita della «boiata» di Fantozzi: «Ora che abbiamo sconfitto la censura possiamo dirlo: L’amante di lady Chatterley non era un gran libro».
Non sempre lo sperimentalismo sessuale è pari a quello estetico. Un annoiato Italo Calvino, interpellato nel ’61 su Nuovi Argomenti, puntualizza: «Nel Novecento l’erotismo non è un motivo poetico. Il nostro è il secolo di Kafka, scrittore casto ». E rimprovera Fenoglio per aver ecceduto nella Paga del sabato. Una noia certo non condivisa dall’autore di Maledizioni, che con maliziosa dedizione inanella tutte le pagine erotiche setacciate dai giudici, dove il più delle volte l’immediatezza dell’anatomia prevale sul filtro della metafora. Non tutti mostrano la delicatezza d’un Dino Campana che con «misterioso maniero» alludeva all’origine del mondo ritratta da Courbet. Non certo scrittori come Kerouac e Ginsberg, liquidati nel ’64 dal tribunale di Milano come una banda di «falliti, inetti, incapaci». E sarebbe toccato a una pazientissima Fernanda Pivano stemperare turpiloquio e bestemmie della beat generation in una estenuante contesa con la casa editrice Mondadori.
Qualche volta ad avventarsi sul testo con le forbici non sono editori tremebondi né pie lettrici, ma i parenti più stretti dello scrittore. Accadde alla povera Antonia Pozzi, vessata sia nell’opera che nella vita dal padre podestà di Pasturo. Nel 1938 decise di farla finita, ma ancora oggi è oggetto di una controversia legale, attraverso la sua biografa Alessandra Cenni che non ne ha taciuto gli aspetti più trasgressivi, irritando più di un congiunto. Si deve invece a un pronipote molto attivo di Dossi l’edizione integrale delle Note azzurre. Tra i brani proibiti per oltre un secolo affiora un colorito ritratto di Vittorio Emanuele II, «il più illustre tra i chiavatori», scrive Dossi che si sofferma sull’episodio della vergine tredicenne comprata dal re. E a proposito dei padri della patria, un denso capitolo riguarda «la pederastia post mortem» di Settembrini, «uomo nato per essere un monumento» ironizzava Manganelli. Il suo romanzo omosessuale I neoplatonici è rimasto nella penombra per svariati decenni, ignorato anche da Benedetto Croce che celebrò «la vita purissima» dell’eroe, «consacrata all’ideale della nazione e della famiglia ». La patriottica ipocrisia fece venire l’orticaria a Giorgio Manganelli, il quale trae pretesto dall’omoerotismo di Settembrini per una sua personale epica risorgimentale: «Può darsi che qualcuno sappia e taccia che Cavour fornicava con le capre, Mameli era un masochista — l’inno aveva funzione puramente erogena — e Nino Bixio un cocainomane che violentava le anatre mandarine». Siamo sul finire dei Settanta. La sessualità non fa più paura e cede il passo al grottesco.
Man mano che ci avviciniamo al nuovo secolo, i processi agli scrittori diventano dagherrotipi sbiaditi, resi opachi dalla polvere dell’anacronismo. Più che maledizioni, una benedizione per l’ufficio marketing. All’udienza per Sodomia in corpo 11 Aldo Busi indossa lo smoking bianco, ravvivato all’occhiello da un narciso giallo. Alla fine del processo, mentre lo scrittore si gode il momento di gloria, telefona alla madre. «Com’è andata? », gli domanda lei preoccupata. «Male», risponde Busi. «Mi hanno assolto».