Philip Roth, Corriere della Sera 6/10/2013, 6 ottobre 2013
«LAFAYETTE, ECCOMI!» LA FRANCIA DI ROTH
Ero un bambino di sette anni quando venni a sapere dell’esistenza della Francia, e fu per via dell’invasione e dell’occupazione tedesca del 1940, all’inizio della Seconda guerra mondiale. Il primo nome francese che sentii fu forse quello di Charles de Gaulle. In seguito, stavo ad ascoltare mio padre che, assorbito dai bollettini di guerra pubblicati dai quotidiani della sera e trasmessi alla radio, parlava in toni dispregiativi dei grandi collaborazionisti di Vichy, il maresciallo Pétain e l’abominevole Pierre Laval. A scuola, intanto, imparavo che il marchese di Lafayette, compagno di ventura di George Washington, era un aristocratico francese approdato in America per servire con eroismo nell’esercito rivoluzionario di Washington come generale maggiore.
A scuola ci dissero anche che nel 1917, al suo arrivo in Francia per combattere al fianco di francesi e britannici contro i tedeschi nella Prima guerra mondiale, il generale John J. Pershing, comandante dell’esercito americano, annunciò a gran voce — centoquarantuno anni dopo la rivoluzione americana — «Lafayette, eccomi».
La dichiarazione del generale Pershing, che fosse apocrifa o no, divenne ben presto, per noi ragazzini di otto o nove anni allora in quarta elementare, uno slogan da pronunciare per gioco, ma con orgoglio. Per qualche tempo, al ritorno da scuola, io stesso salutavo mia madre declamando: «Lafayette, eccomi».
«Dimenticaci, Signore, se dimenticheremo/ la sacra spada di Lafayette». Noi scolaretti americani di Newark, dovevamo impararlo a memoria.
Durante e dopo il D-Day e l’avanzata degli Alleati nella Francia occupata dai tedeschi, nel giugno del 1944, appresi i nomi di città come Le Havre e Cherbourg, e di paesi come Sainte-Mère-Eglise, dove nei giorni successivi all’invasione ci furono feroci combattimenti e perdite ingenti. Nell’agosto del 1944, sui giornali americani vidi le foto della trionfale liberazione di Parigi da parte delle truppe francesi e americane.
Fu probabilmente perché da bambino avevo conosciuto la Francia come vittima di Hitler e gli Alleati come suoi salvatori, che quando iniziai la scuola secondaria nel 1946, a soli pochi mesi dalla fine della guerra, scelsi come prima lingua straniera il francese.
Ho dimenticato da tempo il francese, che imparai a tredici anni, ma in compenso da adulto ho cominciato a leggere, a studiare e a insegnare la narrativa francese del XX secolo tradotta in inglese, e in particolare le magistrali opere di Mauriac, Colette, Genet, Gide, Céline e Camus. Se Samuel Beckett è un autore francese, aggiungo anche lui alla lista. Come scrittore americano, da ciascuno di loro ho imparato qualcosa sull’arte del romanzo.
Ricevere un riconoscimento così importante da parte di un Paese diverso dal proprio è piuttosto stupefacente. Si stenta quasi a credere che in altre terre ci siano altri lettori che ti prendono in seria considerazione, quando per decenni si è stati impegnati a scrivere nella propria lingua, dei propri momenti e luoghi.
Quest’altissima onorificenza è per me una meravigliosa sorpresa. E poiché mi avvicina al novero dei romanzieri francesi che tanto ammiro, mi rende estremamente felice: Je suis absolument ravi.
(Traduzione di Laura Lunardi)