Attilio Barbieri, Libero 5/10/2013, 5 ottobre 2013
LA FABBRICA LENTA
Giovanni Bonotto, imprenditore vicentino di Molvena è stato premiato quest’anno dalla Fondazione Masi per un’intuizione che rischia di farlo diventare l’Adriano Olivetti del nuovo secolo: l’invenzione della “Fabbrica lenta”. Alla quarta generazione di imprenditori nel settore tessile rischiava di fare la fine di altre decine di colleghi vicentini. Scomparsi, schiacciati dalla concorrenza a basso costo dei Paesi emergenti: India, Cina, Vietnam. «Alle riunioni di Confindustria degli anni Ottanta eravamo una trentina a produrre tessuti in questa provincia », racconta a «Libero», «ora siamo rimasti in due, la mia azienda e Marzotto che è un gigante del settore, un vero campione mondiale. Per anni, a quelle riunioni, il ritornello era uno solo: dobbiamo abbassare il costo orario, produrre di più e più velocemente. Così i vecchi metodi di tessitura, le macchine in cui l’Italia ha avuto un primato indiscusso fino agli anni Cinquanta e Sessanta sono andate in soffitta. Sostituite da quelle moderne: tanta elettronica e una velocità pazzesca. Eravamo tutti assillati da un obiettivo: produrre la stessa quantità di tessuto in un tempo minore. Una gara che non aveva fine. Se non quando l’azienda chiudeva.
Già, perché il finale di questa corsa contro il tempo per decine, centinaia di imprese italiane è stato uno solo: i portoni chiusi per sempre. I Paesi a bassa intensità di costo del lavoro potevano permettersi di produzione e vendere a prezzi che erano anche la metà dei nostri. Dunque non era quella la strada da percorrere. «Assolutamente no», racconta Bonotto, «soprattutto quando i concorrenti dei Paesi più agguerriti hanno avuto le risorse finanziarie per acquistare i nostri stessi macchinari».
La svolta per l’azienda di Molvena, arriva a metà del decennio scorso, quando Giovanni, allora meno che quarantenne, decide di abbandonare i sistemi di produzione più avanzati e fare un tuffo nel passato: «A un certo punto i nostri tecnici erano diventati dei campioni mondiali, dei veri fuoriclasse, nell’unica operazione che era richiesta loro dalle macchine elettroniche: premere il pulsante start e stop. Perché la perizia richiesta, iniziava e finiva lì. E quello era il nostro problema». Così parte per il Giappone, dove trova dei vecchi telai meccanici di quelli che da noi si usavano negli anni Cinquanta. Elettronica zero, tutti ingranaggi leve e pulegge. «Quando li hanno scaricati nel piazzale della nostra fabbrica i dipendenti hanno sgranato gli occhi. Mi guardavano e nei loro occhi leggevo una sola, muta domanda: Bonotto è per caso impazzito?». In realtà la riscossa dell’imprenditore vicentino è partita proprio da quelle macchine. Quel giorno è iniziata la storia della “Fabbrica lenta”. «Una macchina automatica a controllo elettronico », racconta, «produce 200 metri di tessuto al giorno e un operaio ne controlla anche 4 o 5. Basta premere un pulsante e il gioco è fatto. Invece con un vecchio telaio giapponese degli anni Cinquanta di stoffa se ne produce al massimo 25 metri, e per farlo girare occorre un operaio che chiavi alla mano, verifichi di continuo gli ingranaggi ».
Una follia? Tutt’altro, ameno a giudicare dai numeri: 32 milioni di euro di fatturato, in aumento anche quest’anno e dipendenti in crescita dai 70 di quando sono state reintrodotte le vecchie tecnologie agli attuali 200. Gli ordinativi cresco no, assieme ai ricavi, e arrivano dalle grandi griffe della moda: Yves Saint Laurent, Gucci, Hermes, Vuitton e Ugo Boss, tanto per citarne alcune. Ma il maggior numero di ordini arriva dalla Cina, la patria mondiale del falso e dei prodotti a bassissimo costo.
Ma non è soltanto una questione di tecnologie e di telai. Bonotto ha una visione rivoluzionaria anche sulla dimensione antropologica della fabbrica. «I prodotti italiani sono soprattutto un condensato di cultura, così a un certo punto ho pensato di coinvolgere nel mio progetto alcuni artisti di fama mondiale, invitandoli in fabbrica. L’idea era quella di lasciarci impollinare dalla loro arte, assorbire i loro stimoli. Come è accaduto quando Yoko Ono è venuta a esporre da noi alcuni dei suoi allestimenti ». Cosa c’entri la moglie del più famoso e sfortunato dei Beatles, John Lennon, con telai e tessuti, è presto detto: «Vivere a contatto con un’artista del genere e con le sue opere ti da un grande stimolo. Ne esci diverso». Dunque non è solo una questione di numeri e di velocità. Nella fabbrica lenta l’operaio non solo non è più condannato a strucar el boton (schiacciare il bottone), ma si trasforma in «maestro d’arte tessitore». Ad aggiungere quel pizzico di genialità necessaria a trasformare un pezzo di stoffa, pur di grande pregio, in un’opera d’arte ci pensa Giovanni, sposando i tessuti con le altre magie inimitabili della nostra terra. Così escono da Molvena la lana di pecora nera tinta coi mirtilli Rigoni di Asiago e la flanella colorata con l’Amarone di Valpolicella.
A Bonotto la Fondazione Masi – il premio gli viene conferito oggi – ha riconosciuto l’originalità della sua intuizione professionale: la sua Fabbrica Lenta, così si legge nella motivazione, nel rifondare l’eccellenza dell’artigianato d’arte italiano, afferma il valore della creatività e del recupero della tradizione tessile. Trasformandoli in leve strategiche per il rilancio del manifatturiero italiano. E se la riscossa del nostro sistema industriale passasse da Molvena e non dalle asettiche stanze della Bocconi?