Laura Anello, la Stampa 5/10/2013, 5 ottobre 2013
“DVI”, LA SQUADRA DI POLIZIOTTI CHE ATTRIBUISCE UN NOME AI CORPI
«No, spero che i bambini non tocchino a me. Di morti ne ho visti tanti, ma ho lasciato a casa un figlio di quindici mesi. E fatico a non vederci lui, in quei quattro corpicini». Gaetano Roccuzzo, quasi cinquant’anni, da giovedì sera vive nell’hangar dell’aeroporto dove sono stati raccolti i 111 cadaveri delle vittime della strage. Lui è un cacciatore di identità. Un investigatore dei profili genetici. Un poliziotto alla ricerca di nomi. La squadra è nata nel maggio scorso e si chiama Dvi, sigla che sta per «disaster victim identification», e interviene nei casi di emergenze colossali: sciagure aeree, cataclismi, naufragi.
Trenta uomini — direttori tecnici, medici legali, esperti dei gabinetti scientifici — impegnati giorno e notte per fotografare i volti, censire gli oggetti personali, prendere le impronte digitali, estrarre il Dna, fare la radiografia alle arcate dentarie. Tutto quello che può identificare una persona senza alcun dubbio, tutto quello che un giorno si potrà offrire a madri, padri, fratelli, mogli, mariti in cerca dei propri cari saliti su un barcone della speranza. «Siamo a metà — racconta — non ci fermiamo un attimo. Appena abbiamo finito il nostro lavoro, i corpi vengono collocati nelle bare, e le bare vengono saldate e lasciate nell’hangar, in attesa di destinazione».
Una corsa contro il tempo. «È stato dopo lo tsunami in Thailandia — spiega — che si è deciso di creare anche in Italia una squadra specializzata nell’identificazione delle vittime, una squadra che lavora in collaborazione con l’Interpol. Tutti gli elementi che raccogliamo vengono trasferiti in una banca dati. Se uno di questi poveri profughi aveva già provato a raggiungere il nostro Paese ed era stato identificato, allora verrà fuori subito il suo nome. Altrimenti si potrà allargare la ricerca a livello internazionale. Se ci sono familiari che cercano i propri cari, basterà fare un confronto tra profili genetici per avere la certezza della parentela con una vittima».
Non avranno corpi da abbracciare, i padri, le madri, gli zii rimasti in Eritrea o in Sudan, né un ultimo sguardo da ricordare, né parole estreme da sussurrare. Avranno i grafici e le percentuali di compatibilità del Dna. Fredde, scientifiche ma comunque pietose. Perché necessarie a dare un nome, e con quello restituire storia, memoria e dignità.
Qui i cacciatori di identità sono trenta, arrivati da tutta Italia e guidati da una donna, il vicequestore aggiunto Caterina Bertuglia, che fa da collegamento con le autorità ed è in contatto costante con il Centro di prima accoglienza dove sono accampati i 155 sopravvissuti. I quali piangono, si disperano, chiedono notizie dei passeggeri del barcone. «Dove sono gli altri superstiti?», ha chiesto ieri una donna. «Siete tutti qui, non ce ne sono altri», le hanno risposto gli operatori dell’accoglienza. Chi manca all’appello, quindi, o è nell’hangar oppure è in fondo al mare, incagliato nello scafo affondato. E oggi sarà il primo dei giorni della verità. Perché i poliziotti della Dvi, completato il loro lavoro, passeranno fotografie e informazioni ai colleghi dell’Ufficio immigrazione e della Squadra mobile incaricati di parlare con i sopravvissuti. Di sentire i loro racconti. Con chi erano partiti? Chi hanno perso? E probabilmente molti di quei profili genetici diventeranno nomi.
In tanti qui si chiedono dove siano le madri e i padri dei quattro bambini allineati nella parte sinistra dell’hangar. Uno aveva pochi mesi, l’altro circa un anno, i più grandicelli quattro o cinque. I genitori sono tra i corpi abbracciati in fondo al mare? Sono sotto choc al centro di accoglienza? Nessuno sa dire che cosa sia peggio.