Niccolò Zancan, la Stampa 5/10/2013, 5 ottobre 2013
“PER PARTIRE 500 DOLLARI LO SCAFISTA SI FACEVA CHIAMARE THE DOCTOR”
«Il comandante si faceva chiamare “the Doctor”. Mafia, mafia... Un uomo cattivo. Un libico. Lo abbiamo pagato 500 dollari per partire dal porto di Misurata».
Il ragazzo ha 18 anni e due occhi enormi, pieni di futuro. E’ il maggiore di otto fratelli. Si chiama David Villa, come il giocatore del Barcellona. E’ partito da un villaggio vicino a Keren, nel deserto dell’Eritrea, perché toccava a lui prendersi cura della famiglia. «Io so nuotare - dice - per questo sono ancora vivo. I miei amici invece non erano mai stati nel mare».
E forse adesso a qualcuno sembrerà normale trovarlo qui, in questo stato, la prima notte dopo il naufragio, ripescato da un mare di morti. David Villa è nudo, a parte un paio di slip bianchi. Coperto soltanto da un telo di stagnola luccicante d’oro. E’ rintanato nel centro di accoglienza, sotto gli alberi, dentro a un cubicolo ricavato con materassi di gomma piuma lerci. Tumulato fra i vivi, fra gli scampati. Vicino all’amico Kijwa, che nel mare ha perso il fratello e non riesce più a parlare. Vicino al siriano Rachid, nato a Damasco e in fuga dagli orrori della guerra. E’ lui che fa da interprete. «Avevo solo una maglietta di ricambio - dice David Villa - una tanica da cinque litri d’acqua. Niente da mangiare. Ma tanto stavamo troppo male per mangiare qualcosa».
E’ una notte di scirocco e poche stelle lontane. Si arriva al centro seguendo un piccolo sentiero sterrato, pieno di bottiglie di birra vuote. I militari di guardia lungo le reti sono andati a dormire. Così si scopre che la storia, questa storia dell’ecatombe di Lampedusa, non è esattamente come l’avevamo raccontata. «Le barche erano due - dice David Villa - avevamo navigato per due giorni e due notti quasi sempre vicini. Il mare era grosso, pieno di onde alte. Quando finalmente abbiamo visto terra, ci veniva da ridere. Io pregavo e pensavo a mio padre e mia madre, dovevano essere orgogliosi di me. Tutti sventolavamo le magliette. Urlavamo. C’erano poche luci accese sulla costa. Un amico di “the Doctor” cercava di telefonare».
E’ l’ultimo momento di felicità. L’unico. Nel mare scuro di notte ci sono due barconi tinteggiati di bianco e azzurro, nessun nome sulla fiancata, nessuna bandiera. Sono stati sventrati nella pancia per poter essere più capienti. Sono carichi all’inverosimile di ragazzi, donne e bambini. E adesso, finalmente, sono a mezzo miglio dalla costa. Ma sono arrivati sul lato più occidentale dell’isola, di fronte alla spiaggia dei Conigli, una riserva naturale quasi disabitata. David Villa è stremato come i suoi compagni di viaggio, tutti stanno ringraziando il loro dio. Ma nessuno si accorge di loro. «Qualcuno ha incendiato una camicia - dice il ragazzo - abbiamo sbagliato. Ha preso fuoco il ponte. Le fiamme erano alte, scoppiava la benzina. Ci muovevamo così tanto che tremava tutto. Erano onde altissime. Molti si sono buttati in mare per cercare di salire sull’altra barca. Qualcuno ce l’ha fatta a nuoto. Ma erano pigiati, strattonavano, troppo stretti. Quando mi sono buttato in acqua io, urlavamo tutti».
Due barche gemelle, due scafisti. Una sta bruciando. E’ la guerra degli ultimi. Per issarsi a bordo, per non farsi buttarsi giù. Questo è successo l’altra notte, mentre tutti dormivamo.
Eppure il deserto del Sudan era stato persino più spaventoso, per David Villa. «Abbiamo impiegato due mesi per attraversarlo. Andavamo a piedi, poi sui camion. Tante volte ho pensato di non farcela». Eppure in Libia era stato anche peggio: «Ho lavorato quasi un anno per trovare i soldi dell’attraversata. Facevo l’imbianchino. Vivevo in una baracca di legno. I libici mi picchiavano sempre. Mafia, mafia... Mi trattavano come uno schiavo».
Adesso un neonato piange sotto la tenda vicina. Un gruppo di siriani fuma contro la cancellata, ancora svegli alle tre del mattino. C’è un grosso cane buono che viene ad annusarci i piedi.
Nel primo giorno italiano David Villa ha mangiato penne al sugo con le mani. Ha cercato l’ombra fra i sacchi neri dell’immondizia. Ha visto due ragazzi somali riposarsi dentro un freezer scollegato dalla corrente. Ognuno ha lottato anche qui per procacciarsi un angolo. Tutti hanno incontrato gli operatori del centro, che cercano di aiutare ogni secondo, senza nemmeno il tempo di mangiare e fare una telefonata a casa. Ma come si fa a prendersi cura di un mare di gente?
La capienza del centro di accoglienza - tre prefabbricati affossati dentro una conca di rocce bianche - è 250 posti. Oggi ci sono 1055 migranti, di cui 669 uomini e 168 minori. David Villa non si è mai lamentato di nulla, neppure adesso piange. Anzi: «Vado in Switzerland - dice -nel Nord Europa. Voglio studiare. Diventare un infermiere». Ha messo la morte in conto per tutti questi mesi. La morte come compagna di ogni singolo chilometro percorso. Ha negli occhi la sua strada e nessuna paura di percorrerla: «Mamma e papà, voglio dirvi che c’era il vento. C’è stata un’onda grande e sono caduto in mare. Ma non vi preoccupate per me, io sto bene».