Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 05 Sabato calendario

CAGE IL SOLITARIO “COSÌ RIESCO A VIVERE BENE LONTANO DAI RIFLETTORI”


«Penso di essere sempre stato un iconoclasta. Uno eternamente fuori dal coro. Escluso, anche. Ma va bene, sono fatto così». Nicolas Cage ha l’espressione da Cristo tradito e la giacca sbagliata. Nella terrazza veneziana irrompe James Franco, firmato da capo a piedi. Pacche sulle spalle, abbracci, raffica di concetti (“cool” è ripetuto come un mantra).
Lo invita a una cena con la cugina Gia Coppola, di cui ha prodotto il film, tratto da un suo libro di racconti. Poi si allontana e Cage, all’anagrafe Nicholas Kim Coppola, si risiede tramortito. «No, non ho visto il film di mia cugina. E nemmeno lei, da molto tempo. Ho davvero pochi contatti con la famiglia». Non è facile crescere figlio di un Coppola minore.
«Da ragazzino ero tutt’altro che popolare. Avevo spesso difficoltà a stabilire un contatto con i compagni di scuola, con gli altri ragazzi. Mi sentivo diverso». Un’infanzia appartata, quella di Nicolas Cage, nato a Long Beach 49 anni fa. «Ero talmente convinto di essere un alieno che quando un dottore mi visitò e mi disse che avevo lo stesso scheletro e organi di tutti gli umani rimasi stupito. Mi sentivo proprio come il David Bowie di L’uomo che cadde sulla terra, un extraterrestre». Sua madre, ex ballerina, soffriva di schizofrenia e ha trascorso lunghi periodi ricoverata in un istituto. Fu l’amato padre August, professore di letteratura, minore di Francis solo per fama, non per età e sapienza, a offrirgli una via d’uscita. A indicargli la strada. «Ha spalancato per me il mondo della fantasia. Creando un gioco: dovevo immaginare di essere un corrispondente straniero che viveva nel mondo dei libri, prendendovi parte. Così ho scritto il capitolo mancante di Moby Dick». Mentre i rampolli dello sterminato clan Coppola, i cugini Sofia e Roman e Jason (Schwartzman, attore anche lui) mettevano in scena gli spettacoli nella magione californiana del patriarca Francis (facendo poi squadra da adulti nell’industria del cinema) il solitario Nicolas trascorreva le giornate sui libri, inventando un mondo tutto suo. Poi sono arrivati i fumetti, passione che lo ha spinto a scegliere il suo nome d’arte, Cage, in onore del personaggio Luke Cage, mentre il figlio secondogenito si chiama Kal-El, che è il nome kryptoniano di Superman.
«Non è stata un’ossessione, come scrivono su Internet — racconta — È una parte, importante, ma non il tutto. In fondo avevo capito prima degli altri che l’universo dei comics poteva diventare una mitologia non solo americana». Il cognome lo cambiò anche per liberarsi dell’ingombrante appartenenza. «Tra i momenti migliori della carriera quello in cui la regista Martha Coolrige mi scelse per La ragazza di San Diego senza sapere di chi fossi il nipote». Zio Coppola qualche aiuto lo ha dato (Rusty il selvaggio, Peggy Sue si è sposata).
Ma la voglia di essere amato per quello che era lo ha spinto a sposare, tanti anni dopo, la cameriera di un sushi bar, Alice Kim, che si è invaghita di lui senza riconoscerlo. I rapporti con le donne (anche famose, come Patricia Arquette e Lisa Presley) sono stati tanti e difficili. La gioventù ricolma di eccessi, esperienze estreme. Poi sono arrivati i problemi con le tasse, case e castelli comprati e venduti, ubriacature leggendarie. Dall’alcol si è disintossicato, ma qualche ricaduta, anche recente, è stata certificata dalla polizia di New Orleans.
Non avendo la capacità di inserirsi in questo mondo, Cage se ne è costruito un altro. E al cinema, dove è amato e odiato, pur avendo vinto un Oscar per Via da Las Vegas, ha imboccato una scia di film di genere, personaggi fuori di testa, «la realtà per me era più difficile da interpretare», si giustifica. Oggi, a 49 anni, l’attore ribattezzato “faccia di gomma” per via della mimica troppo accentuata, ha cambiato registro e ritrovato misura. Molto lodati i personaggi in Il cacciatore di donne, in cui è il mite poliziotto che con l’aiuto di una giovane prostituta cattura un terribile serial killer (il film è nelle sale italiane) e in Joe, visto all’ultima Mostra di Venezia, qui è un ex detenuto che cerca di rifarsi una vita e si prende cura di un ragazzino con una terribile situazione famigliare. Cage è stato uno dei ragazzini che portava a casa gli uccellini feriti. «Joe mi somiglia. Ha un codice morale tutto suo. L’onestà estrema però lo mette nei guai, si trasforma in una rabbia vera, anche se cerca di tenerla sotto controllo». L’attore, la grande rabbia giovanile l’ha convogliata nella recitazione. «Dopo tante interpretazioni fatte con spirito di sperimentazione, la voce usata come uno strumento, il ruolo progettato come un pezzo di design, sono tornato alla semplicità». È in prima fila nella beneficenza, e quando gli si accenna ai problemi (anche fiscali), ricorda che «c’è gente che soffre davvero, io sono un privilegiato». A Hollywood è un outsider assoluto «Non mi piacciono le serate, non mi interessa frequentare i ricchi e famosi, i tappeti rossi. Non socializzo abbastanza, non vado ai party e so che questo non aiuta, a Hollywood. Ma se mi fanno una telefonata io mi metto a disposizione e mi ci spendo fino in fondo, non abbandono mai». Il lupo solitario Cage è un lupo di mare «un amore, anche questo, ereditato da mio padre. Mi portava a pescare sulla sua barca a San Pedro, tutta la notte, in acque messicane. L’equipaggio era variegato, un’umanità interessante e spesso ubriaca. Ricordo la prima volta che mi sono tuffato, scoprendo il mistero dell’oceano». Per questo, svela, il suo ultimo sogno in una lunga carriera (settanta pellicole) costellata da successi e disfatte è un film sottomarino, Ventimila leghe sotto i mari.
«Il ruolo di Capitano Nemo. Mi piace il suo coraggio, vivere a ettolitri di distanza dal resto dell’umanità. Mi piace la sua capacità di isolarsi da tutto e tutti. E il suo modo di onorare l’oceano». L’altro mondo da esplorare, oggi, per l’eterno fuggitivo è la Cina. Sta per girare un film con Hayden Christensen dal titolo programmatico: Outcast, fuori casta. «Sono un guerriero che diventa bandito nell’antica Cina. Mi piace assaporare una nuova cultura, un nuovo cibo, respirare nuova energia». Anche il suo posto dell’anima è molto lontano da Hollywood. «Se chiudo gli occhi mi vedo a Venezia. Ho trascorso i miei momenti migliori in questa città, con mio padre. Vorrei spenderci gli ultimi anni. Qui avverto vicino lo spirito di mio padre. E non mi sento più solo».