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 2013  ottobre 05 Sabato calendario

IL GIUDIZIO UNIVERSALE? FORSE È GIÀ QUI

Ricevo un libro dal titolo bellissimo: Giudizio universale con pause (dai diari di Friedrich Hebbel, a cura di Alfred Brendel, traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia, Adelphi), e mi chiedo chi sia questo Hebbel. Poi la memoria stanca e vagabonda si rischiara: di lui parlò Franz Kafka nelle lettere a Felice Bauer (Mondadori, I Meridiani, 1972).
Kafka aveva conosciuto Felice Bauer, un’impiegata ebrea berlinese, a casa dei genitori di Max Brod, la sera del 13 agosto 1912. Subito si sentì avvinto senza rimedio. Avvertiva uno squarcio nel petto, attraverso il quale, per la prima volta, il sentimento d’amore entrava ed usciva. Scopriva di appartenere completamente, anima e corpo, a quella donna dai capelli senza luce, dai denti guasti e dall’espressione vuota che, per cinque anni, trasformò nel cuore radioso della propria vita. Dallo «squarcio» del petto di Kafka usciva un torrente tumultuoso, dove fluttuavano, e si ingorgavano e si scontravano spumeggiando, brandelli di vita, confessioni di letteratura, — il tesoro della sua genialità che non si era ancora espresso nei libri. Malgrado le caute raccomandazioni di lei, non voleva moderarsi, a nessun costo. Continua a meravigliarci che quest’uomo così pudico, così discreto, così elusivo, si confidasse senza riserve, come se avesse sempre conosciuto Felice. Egli proiettava Felice fuori di sé, e si identificava totalmente con la sua proiezione: si dedicava a lei, si consacrava a lei, come se fosse Felice e non la letteratura a dare un senso alla sua esistenza.
Tra il 26 e il 27 gennaio 1913, e tra il 28 e il 29 gennaio (le lettere erano scritte di notte), le parlò a lungo di Friedrich Hebbel. «Era un uomo, che sapeva sopportare il dolore ed esprimere la verità. Nemmeno una linea del suo essere sfuma, egli non trema… poteva sempre dare notizia di qualsiasi cosa avesse fatto, cominciando con le parole: "se la calma della coscienza è la prova dell’azione". Come sono lontano da uomini simili! Se volessi fare anche una sola volta questa prova della coscienza, dovrei passare la mia vita guardando le oscillazioni di questa coscienza. Così preferisco volgermi da un’altra parte, non voglio sapere di controllo… Lo sento di fatto (sebbene io, misurato con occhi tranquilli, sia lontano da lui come la più piccola luna dal sole) vicinissimo al mio corpo, egli si lamenta al mio collo, mette immediatamente le dita sulle mie debolezze e, qualche volta, abbastanza di rado, mi trascina via con sé come se fossimo due amici… Hebbel pensa con assoluta precisione, e senza nessuno di quei sotterfugi, nei quali uno cerca così volentieri di salvarsi con la propria disperazione».
Le storie della letteratura aggiungono: Hebbel nacque nel 1813 e morì nel 1863. Scrisse molti testi teatrali, che non ho mai letto. Morendo a cinquant’anni, lasciò una gran mole di appunti che, in una edizione mutila e inadeguata, furono pubblicati per la prima volta nel 1885-87: sono i cosiddetti Diari dai quali Alfred Brendel ha tratto la sua breve scelta.
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Nei Diari, Hebbel scrive cose terribili sulla sua vita. «Com’è stata cupa e desolata la mia infanzia! Mio padre in realtà mi odiava, anch’io ero incapace di amarlo. Lui, schiavo del matrimonio, incatenato all’indigenza, al nudo bisogno, non era in grado di avanzare di un solo passo, pur profondendo tutte le sue forze e l’impegno più smisurato; però odiava anche la gioia: l’accesso al suo cuore le era precluso da cardi e rovi, e così non poteva sopportarla nemmeno sui volti dei figli, la lieta risata che allarga il cuore era per lui un sacrilegio, un oltraggio alla sua persona…». E ancora. «Da Monaco non posso più partire, perché un viaggio a piedi in questa stagione è più che problematico, e in vettura mi costerebbe troppo. Come riuscire a superare l’inverno non lo so. Di essere così privo di qualsiasi stimolo, di qualsiasi sollecitazione a operare, non mi era mai accaduto prima. In tutta la settimana non vedo una sola persona, non ho occasione di parlare con nessuno, eppure questo per me è un bisogno… Io temo queste privazioni spirituali molto più che non quelle materiali, anche se vorrà pur dire qualcosa il fatto che da due anni e mezzo a questa parte, se si esclude una sola estate, non ho più consumato un pasto caldo».
Tutta la gioia che non provò nella sua vita, Hebbel la riversò negli aforismi, nei quali fu un maestro non meno grande di Nietzsche e Kafka. Un lettore moderno avverte qualcosa di simile negli aforismi di Cioran. Il gusto del paradosso; l’amore del totale rovesciamento; il lampo violentissimo che illumina l’oscuro; la rapidità vertiginosa; l’intero mondo concentrato in due righe. Una frase contiene un sistema; e la frase successiva ne contiene un altro, opposto o contraddittorio al primo. «Brevità di discorso produce vastità di pensiero», diceva Jean Paul. Ed Hebbel: «È una vera disdetta che, mentre diciamo una cosa, non possa dire contemporaneamente anche l’altra».
Faccio qualche esempio (questo articolo è un elenco di citazioni). «Il confine del bello è una linea precisissima e si può superare di sole mille miglia. L’infinitesimo è tutto». «Ha superato se stesso! Il che nella maggior parte dei casi, a dire il vero, è impresa molto facile». «Le persone virtuose rovinano la virtù». «Quando Dio si trovò in imbarazzo a causa della turba di uomini che non sapevano cosa fare di sé stessi, creò allora la felicità». «Io resto fedele a me stesso! È proprio questo il tuo guaio; vedi di essere infedele una buona volta»; «Viviamo in tempi di Giudizio Universale, di quello muto, però, in cui le cose crollano da sole».
«Sacrificare la sofferenza: supremo sacrificio». «Il mondo è il peccato originale di Dio». «Poiché Dio ha creato il mondo dal nulla, il nulla vi occupa sempre il posto più alto». «Umorismo è riconoscere le anomalie». «Se esistesse una condizione in cui nessuna cosa consegue dall’altra e nessuna segue all’altra? Una condizione per la quale non abbiamo che la parola miracolo». «Persone che al posto del cervello sembrano avere nella scatola cranica un pugno serrato; tanto si ostinano nella loro stupidità». «Un tale consegna al boia un documento, la propria condanna a morte. Il boia non sa leggere, lui stesso sa solo compitare… come finisce di sillabare e lascia cadere il foglio dallo spavento, gli viene tagliata la testa». Così Il processo di Kafka.