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 2013  ottobre 05 Sabato calendario

CLANDESTINI IN ITALIA A QUOTA 300 MILA (MA SONO IN CALO)

Clandestino, nell’etimologia «di nascosto», fuori dalla legge e pure dallo sguardo del primo mondo. Non è il caso di donne, uomini e bambini morti in mare al largo di Lampedusa, per la gran parte richiedenti asilo: in base alle leggi internazionali, avevano diritto a essere accolti. In clima di tragedia e di rese dei conti politiche, però, anche di questo si torna a parlare: di chi si trova in Italia senza regolari titoli di soggiorno.
Nelle statistiche sono tutti assieme: chi ha varcato il confine triestino o è sbarcato alla spiaggia dei Conigli senza documenti nè timbri («clandestini»); e chi è arrivato con un visto turistico, per esempio, con un aereo per Milano o per Roma, la maggior parte dei casi, oppure ha un permesso di soggiorno scaduto (tecnicamente «irregolari»).
Le stime che li riguardano negli ultimi dieci anni oscillano tra picchi (651 mila nel 2008) e grossi cali (250 mila nel 2004). Le illustra lo statistico della Fondazione Ismu, Alessio Menonna. Dopo la «sanatoria» di fine 2009 per colf e badanti, spiega lo studioso, dopo il «clic-day» di inizio 2011, dopo il provvedimento di emersione dal lavoro nero del settembre-ottobre 2012, dopo ogni regolarizzazione di massa, ovviamente, il dato scende. E così è diminuito fortemente nel 2007 all’ingresso della Romania dell’Unione europea (cittadini comunitari, i romeni devono solo registrarsi all’anagrafe per essere regolari).
Nel 2012 i sans papiers italiani alla fine registrano uno dei livelli più bassi del decennio: 326 mila. È probabile che anche il prossimo rapporto annoti per il 2013 un calo: «Molti stanno andando via — spiega Menonna — rientrano al Paese di origine o si spostano in altri Stati dell’Unione». È vero per i migranti in generale, è più vero per i «clandestini». In un sondaggio realizzato di recente dall’Orim in Lombardia, in media l’11,4 per cento degli stranieri intervistati dichiarava di aver intenzione di lasciare l’Italia entro 12 mesi. Ma se la percentuale era molto bassa tra chi ha lavoro, casa e famiglia, diventava altissima tra i meno integrati: gli irregolari (30 per cento) e i clandestini (40 per cento).
Perché senza documenti l’esistenza diventa difficile, angosciante: significa convivere con il rischio costante del rimpatrio. Lo spiega il professor Ennio Codini, docente alla Cattolica di Milano e responsabile del settore Legislazione dell’Ismu. Un cittadino «extracomunitario», quindi proveniente da un Paese che non fa parte dell’Unione europea, può avere un permesso per risiedere legalmente in Italia per ragioni di lavoro, di famiglia o di protezione internazionale (è il caso dei rifugiati). Per chi non ha questi documenti (perché è entrato clandestinamente o perché non li ha rinnovati) la legge Bossi-Fini del 2002 introduce l’«espulsione coattiva»: previ controlli, l’irregolare viene accompagnato alla frontiera o, se è il caso, trattenuto in un Centro di identificazione e di espulsione (Cie). Negli anni successivi i tempi di «trattenimento» sono stati allungati fino a 18 mesi.
Il pacchetto sicurezza del 2009 ha anche introdotto il «reato di clandestinità», che prevede un processo e un’ammenda, ma non una pena detentiva. Più che altro, è diventato una bandiera: «Ha un fortissimo valore simbolico — osserva Codini — negativo per i detrattori, positivo per i sostenitori». Con qualche differenza, esiste anche in altri Paesi dell’Unione. «La peculiarità dell’ordinamento italiano — continua il professore —, sottolineata anche in una sentenza della Corte di giustizia europea, è che non distingue i casi: tratta tutti allo stesso modo».
Il pregiudicato come la baby-sitter che ha tardato a rinnovare il permesso. «Non tiene conto della pericolosità». Mentre negli altri Stati Ue si valuta persona per persona: prima che clandestini, donne e uomini.