Giuseppe O. Longo, Avvenire 6/10/2013, 6 ottobre 2013
PROUST, BORGES E LA MEMORIA
Ricorre quest’anno il centenario della pubblicazione del primo volume della Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, romanzo fluviale in cui l’autore, che sappiamo chiuso in una stanza foderata di sughero per evitare ogni disturbo, narra infinitamente di sé nel tentativo di ricostruire la propria vita nei minimi particolari: impresa vana, che per essere portata a compimento richiederebbe una seconda vita altrettanto lunga, che a sua volta ne esigerebbe una terza e così via, in un gioco di specchi sprofondato en abîme . Il racconto poggia sul duplice pilastro della memoria involontaria e della memoria volontaria. La prima, legata ai sensi (gusto e olfatto in primis), scaturisce dalle profondità del corpo e dalle zone più primitive del cervello, trasportandoci nel contesto primigenio in cui si è formato il ricordo. Spesso intraducibili in parole, i ricordi involontari, evocati in ciascuno dalla propria madeleine personale, sono corteggiati proprio per la loro verità indimostrabile e profonda. Proust traccia un arco che dall’episodio della madeleine nel primo libro si protende fino al riconoscimento, nell’ultimo, che la memoria involontaria (accesa dal tintinnio di un cucchiaino, dal sapore di una pietanza o dalla ruvidità di un tovagliolo) è l’unica capace di risuscitare il passato e di abolire le limitazioni del tempo; e sotto la volta immensa di questo arco si affollano i ricordi che inzeppano la memoria volontaria: personaggi, paesi, camere da letto, abitazioni, salotti, conversazioni, amori, delusioni... Ma questi ricordi, legati alle zone del cervello più recenti sotto il profilo evolutivo, sono sottoposti all’analisi linguistica in senso lato e ogni volta che sono rievocati risultano modificati dalle circostanze attuali: i ricordi diventano ricordi di ricordi, formando una successione che si allontana sempre più dall’impronta primitiva e forma via via una traccia mnestica più o meno indipendente dall’esperienza che l’ha generata. Dei ricordi volontari non bisogna fidarsi: i testimoni oculari non sono sempre attendibili, forse proprio per lo sforzo collaborativo che esercitano su di sé. La continua narrazione che ciascuno fa per aggiornare la propria immagine modifica e trasfigura i dati della memoria, contribuendo al suo inarrestabile dinamismo.
Nel complesso gioco di ricordi e narrazioni non agisce solo la memoria, ma anche l’oblio, un filtro selettivo e spesso salvifico che conserva ed esalta i ricordi positivi per la felicità psichica del soggetto e affievolisce o cancella dalla coscienza quelli negativi, relegandoli nelle profondità dell’inconscio. Non un oblio totale e indiscriminato, ma giudizioso e valutativo, che sgombra il magazzino dei ricordi dai detriti e dalle scorie per far luogo alle esperienze nuove che a loro volta si trasformeranno in ricordi. L’attento e sollecito magazziniere del nostro archivio è attento a ciò che acquisisce e a ciò che elimina o rifiuta di acquisire.
L’oblio consente di disporre i ricordi in una dimensione cronologica: grazie al chiaroscuro prodotto dalla maggiore o minore vividezza dei ricordi si crea una prospettiva storica e autobiografica, che invece viene annullata se i ricordi sono presenti tutti con forza uguale. La variegata sfocatezza chiaroscurale dell’oblio crea la storia, individuale ma anche collettiva, mentre una memoria uniforme e senza ombre la uccide.
Ecco perché, nell’era delle banche dati che nulla dimenticano, si ha la sensazione di vivere in un eterno presente: passato e futuro si appiattiscono in una dimensione di attualità sconfortante e quasi angosciosa, del tutto contraria alla naturale propensione dell’essere umano a vivere in una storia, col suo passato e col suo futuro. La confusione, o meglio l’annullamento, dei tempi contempla una sola alternativa, l’azzeramento totale delle memorie mediante la cancellazione senza residui.
Questa situazione binaria, “tutto o niente”, è quanto di più lontano vi sia dalla natura della memoria umana. Insomma, la dimensione creativa, in particolare la creazione legata al raccontarsi e al raccontare, che è creazione del senso e del sé e fonte primaria della novità inventiva, è legata, nell’uomo, alla pratica dell’oblio e della memoria, saggiamente intrecciate e basate su una scala di valori che metta ai primi posti, appunto, il senso. Del resto, anche le pratiche terapeutiche basate sulla parola (penso alla psicoanalisi), puntando su un esercizio giudizioso della memoria e dell’oblio, portano a una rielaborazione costruttiva e distruttiva dei ricordi da cui può scaturire un nuovo equilibrio dell’individuo con sé stesso, cioè col proprio vissuto memorizzato. Ma ancor prima, non è forse un misericordioso oblio che spesso ci salva da sofferenze troppo crudeli o dalla follia? In un magistrale racconto del 1944, Funes, o della memoria , Jorge Luis Borges ci narra di un giovane che per un incidente rimane paralizzato nel corpo ma acquista una memoria prodigiosa, assoluta, che lo condanna a ricordare letteralmente tutto: al giovane Funes manca ogni capacità selettiva che gli consenta di distinguere i ricordi essenziali da quelli insignificanti e quindi di dimenticare questi per organizzare i primi, ordinandoli in vista della comprensione e del senso della propria vita. Funes ricorda tutto e non capisce nulla, un po’ come una memoria artificiale. E anche certi suoi progetti, pur dotati di «una certa balbuziente grandezza», sono insensati, come quello di ricostruire istante per istante tutta la sua infanzia: per ricostruire una giornata impiega esattamente una giornata. In un senso molto profondo, ciascuno di noi coincide con i suoi ricordi: che personalità slabbrata e incoerente possiamo immaginare in Funes? Gli splendidi replicanti del film Blade Runner di Ridley Scott (1982) sono creature artificiali identiche agli umani («più umani degli umani»), eccetto che, non possedendo il nostro bagaglio esistenziale, non sanno gestire le emozioni.
Ovviamente non possiedono ricordi, o meglio la loro mente è stata corredata di ricordi non grazie all’immersione in una vita vissuta, bensì grazie a procedimenti cibernetici: una replicante, colta dal dubbio di non essere umana, trovandosi davanti a certe vecchie foto ingiallite, entra in crisi e si chiede con angoscia tremenda se esse rappresentino suoi ricordi veri o innestati, se il suo passato sia autentico o finto. Gli animali sono in grado di ricordare perché sono dotati di un sistema nervoso: quanto più complesso è questo sistema tanto più ricchi e differenziati sono i ricordi. Così i rettili hanno una memoria limitata e adibita soprattutto all’apprendimento di compiti motori: il loro cervello è fortemente programmato sin dalla nascita e non è in grado di apprendere molto di nuovo. Nei mammiferi, invece, alla nascita il cervello è ancora immaturo, quindi è suscettibile di apprendere moltissimo durante lo sviluppo. Inoltre le funzioni emotive, che nei mammiferi e in particolare nell’uomo sono molto progredite, contribuiscono a caratterizzare i ricordi in modo piacevole o spiacevole e quindi spingono l’individuo a ricercare certe situazioni e ad evitarne altre.
L’apprendimento provoca nel cervello modificazioni strutturali e funzionali. Esistono due tipi di memoria: a breve termine, o di lavoro, e a lungo termine. La prima raccoglie le informazioni per circa una decina di secondi e le elabora attraverso una serie di moduli, tra cui un esecutore centrale che regola l’attenzione e controlla il comportamento in corso. La memoria a lungo termine non è un sistema unitario, ma è formata da molti sistemi o processi separati. In particolare essa comprende la memoria esplicita o dichiarativa, che contiene le nozioni apprese di cui l’individuo è consapevole e che è capace di riferire a parole; questa memoria può migliorare grazie all’attenzione e alla volontà. Della memoria esplicita fanno parte la memoria semantica (che custodisce le conoscenze enciclopediche sul mondo: il significato delle parole, le nozioni scolastiche e così via) e la memoria episodica, che grazie alla reminiscenza può evocare gli episodi della vita del soggetto. La memoria a lungo termine comprende anche la memoria implicita, riferita ad apprendimenti o conoscenze derivanti dall’esecuzione ripetuta di esercizi o funzioni, anche quando l’individuo non è consapevole delle conoscenze acquisite o le ha dimenticate (ad esempio la capacità di suonare strumenti musicali a orecchio, la padronanza delle attività sensomotorie, in particolare per la generazione dei fonemi, l’uso della grammatica per la produzione e comprensione della lingua madre, e così via). La memoria implicita si arricchisce mediante un’acquisizione non sistematica delle nozioni, senza che vi si applichi l’attenzione, e le conoscenze vengono utilizzate in modo automatico, nel senso che il soggetto, pur scegliendo gli obiettivi, non esegue i passi per conseguirli in modo consapevole e volontario.
Oltre alla memoria situata nel cervello, esiste la memoria di specie, collocata nel genoma, che guida lo sviluppo dell’individuo dallo stato di embrione a quello di adulto e oltre, intrecciandosi con le informazioni provenienti dai sensi e in generale dal corpo. C’è quindi nell’uomo un’interazione continua molto complessa tra memoria genetica, corporea e cerebrale.