Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 05 Sabato calendario

LO SCACCO DI SCHRODER

In Italia quasi tutti ancora ricordiamo quando l’Economist mise in copertina un disegno dello Stivale malconcio e accompagnato da un copy che toglieva ogni dubbio: «The real sick man of Europe». Era il maggio del 2005. L’Italia, si leggeva all’interno della rivista, era colpevole di immobilismo, incapace di riforme sostanziali sul piano socio-economico, fiaccata da una crescita impalpabile. Per tutte queste ragioni meritava lo scomodo appellativo di “malato d’Europa”: una sorta di cappello dell’asino che – a partire dal giorno in cui lo Zar Nicola I di Russia lo mise sulla testa del declinante Impero Ottomano – di decennio in decennio si è posato a turno sul capo delle principali nazioni del continente. Quasi nessuno, invece, qui in Germania più ricorda quando, con motivazioni molto simili, all’inizio degli anni 2000 e sempre sulle pagine dell’Economist, l’imbarazzante appellativo si stiracchiava dalla Baviera alla Prussia. La ragione è molto semplice: da allora i tedeschi non sono rimasti inerti in attesa di tempi migliori. Dei provvedimenti li hanno presi, delle riforme, ideologicamente condivisibili o meno, le hanno fatte. E anche grazie a esse oggi sono gli unici in Europa a crescere a dispetto della Crisi. Certo, tutto questo ha avuto un prezzo; politico e sociale. Lo hanno pagato tutti, i riformisti per primi.

Ottobre 1998 – Helmut Kohl perde le sue prime elezioni dal 1982, dopo sedici ininterrotti anni di Cancelleria durante i quali ha ricucito, con pazienza e acume diplomatico, la ferita tra le due Germanie divise dalla Guerra Fredda. Lascia un’eredità fuori dall’ordinario in tutti i sensi: una Bundesrepublik nuovamente unita, a dispetto di quanti in Europa remavano in senso contrario (si ricorda in proposito una gelida battuta di Giulio Andreotti: «Amo talmente la Germania che ne preferivo due»); ma anche, fatalmente, una Germania più povera dopo aver versato un alto tributo alla riunificazione; nonché un partito, la Cdu, la formazione cristiano-democratica di Kohl, che per questo motivo deve fare i conti con una voluminosa emorragia di consensi e alle elezioni del 1998 esce sconfitto di oltre dodici punti dalla coalizione formata dai Verdi e dai social-democratici della Spd.
Alla guida si trova il cinquantaquatrenne Gerhard Schröder, allora governatore della Sassonia-Inferiore, un politico Spd cresciuto nel rispetto dell’eterodossia di Helmut Schmidt e che da tempi non sospetti va teorizzando l’importanza strategica di un’alleanza Spd-Verdi per «fare le riforme». Chiusa l’epoca Kohl, la Germania, anno zero di Schröeder assomiglia a una vettura ingolfata. Dopo decenni di boom costante, l’ex Repubblica Federale dell’Ovest è un paese dissanguato dai costi (1 500 miliardi di Euro) della fusione con l’arretrata economia della Ddr, e sempre più spesso Germania e Giappone si trovano a condividere lo stesso malaugurante giudizio: due ruggenti economie figlie del dopoguerra entrate ormai in una spirale di declino irreversibile. La disoccupazione è all’11% con picchi del 25% in alcune regioni dell’Est, il costo del lavoro il 50% più alto della media del G7, la fuga di investimenti all’estero un flusso apparentemente inarrestabile, la crescita contratta allo 0,2% del Pil contro lo 0,5% dell’area euro. Da Berlino a Monaco, la società tedesca è piagata da quello che un altro articolo dell’Economist, datato giugno 1999, definisce un sistema fiscale «bizantino e inefficiente», «un welfare gonfiato» e una struttura degli ordini professionali «troppo rigida e cartellizzata». In due parole la Germania a cavallo del terzo millennio è una blockierte Gesellschaft; una «società bloccata» con un urgente bisogno di trovare nuova flessibilità per creare spazio e condizioni per rilanciare la crescita.

14 marzo 2003 – Nonostante l’approssimarsi della primavera, a Berlino, lo riporta una cronaca della Frankfurter Allgemeine dell’epoca, è una giornata grigia e fredda come i colori blu e acciaio delle sedute delBundestag, il parlamento tedesco che quel giorno attende Gerhard Schröder – fresco da sei mesi di rielezione – al varco di un discorso storico: la presentazione di un piano a medio-lungo termine per la ripresa dell’economia. Da tempo non si contava una maggioranza così esigua come quella che supporta il Cancelliere al suo secondo mandato: appena nove parlamentari in più dell’opposizione. Una circostanza che rende ancora più accidentato il sentiero delle riforme e Schröder ne è consapevole. Non può sperare di imboccarlo senza coinvolgere anche parti dell’opposizione e mettere in conto un duro faccia-a-faccia interno alla sua coalizione.

Ma è anche consapevole che, per quanto difficili e impopolari, le riforme sono indispensabili per assicurare prosperità e futuro a una nuova generazione di tedeschi, in un paese che invecchia a ritmi più sostenuti dei partner europei. Probabilmente sa anche che tutto questo avrà un alto costo politico, per il suo partito e per lui. Condivide con Tony Blair la visione di una “terza via” per il centro-sinistra europeo ispirata alle teorie del sociologo Anthony Giddens: ovvero in grado di articolare le prerogative storiche di un partito social-democratico all’interno delle logiche della competizione globale, senza aver paura di sporcarsi le mani – seppur da uomo allevato a sinistra – con la parola “capitalismo”.
Un’ultima cosa che Schröder sa bene è che grandi riforme come quelle che propone – che prevedono, tra l’altro, un robusto taglio del welfare (il più cospicuo dal 1945) e una drastica riconfigurazione del mercato del lavoro – spesso richiedono grandi sacrifici e che il modo migliore per ottenerli è offrire ai propri cittadini il panorama di una speranza, la visione di un futuro anteriore, nuovo e più prodigo; meglio ancora se sintetizzabile in una formula. Blair aveva chiamato il suo “New Labour.” Il 14 ottobre 2013, davanti ai colleghi del Bundestag, Gerhard Schröder battezza il proprio “Agenda 2010.” La promessa è implicita nel nome: da lì a sette anni, la Germania sarebbe tornata a essere la locomotiva d’Europa. Quel giorno il Cancelliere concluse la sua orazione con queste parole: «O ci modernizziamo da soli, e con questo intendo come sistema socio-economico, o altri lo faranno per noi, e con questo intendo incontrollate forze del Mercato che semplicemente si limiteranno a spazzare il campo da qualunque considerazione per le parti sociali».

Aprile 2013 – Sono passati dieci anni da quel discorso che aprì un biennio di violenta battaglia politica – all’interno e all’esterno delBundestag ma soprattutto all’interno della Spd e della sinistra tedesca. Una battaglia a cui Schröder non si è mai sottratto, tirando diritto per la strada delle proprie convinzioni. Nel frattempo la Germania è tornata effettivamente a essere la locomotiva d’Europa e col sopravvento della Crisi anche qualcosa di più. Non tutti i meriti di questo successo ovviamente sono imputabili ad Agenda 2010; vi hanno anche contribuito la crescita della domanda di esportazioni verso i nuovi mercati emergenti e il progressivo ripagarsi dei costi della riunificazione. Ma è innegabile che il piano di Schröder, nel medio termine, è riuscito negli obbiettivi che ilKanzler aveva presentato in quella plumbea mattina di marzo. Il tasso di disoccupazione è sceso al 5%, il taglio della spesa pubblica (con annessa riduzione della pressione fiscale) ha prodotto un incremento dei consumi che è co-responsabile dell’aumento verticale del tasso di crescita tedesco nell’ultimo lustro. Inoltre la riduzione degli oneri dello Stato ha permesso alla Germania di arrivare alla prova della Crisi finanziaria del 2008 prima e a quella immediatamente successiva dell’euro poi, con una competitività e dei conti migliori dei suoi vicini.

Davanti a queste evidenze aritmetiche, nel resto dell’area euro, con una retorica trasversale a diverse parti politiche, si è ripetutamente parlato di Agenda 2010 come un modello di riformismo da perseguire. Lo hanno fatto economisti e politici agli angoli opposti di diversi schieramenti in Francia e in Spagna, e di recente persino un populista diffidente come Beppe Grillo ha preso Agenda 2010 ad esempio per una futura riforma del mercato del lavoro in Italia. Curiosamente, o forse no, i meno entusiasti in merito sembrano essere proprio i politici tedeschi. Negli ultimi mesi, il decennale del discorso di Schröder ha occupato le pagine di quotidiani e riviste e gli studi dei talk show politici, alimentando un vasto dibattito su come si dovrebbe giudicarne l’eredità.

Una delle voci meno presenti in quel dibattito era proprio quella di Schröder, che si è limitato a poche apparizioni televisive e a qualche intervista per confermare di essere ancora oggi pienamente convinto del suo operato. L’ex Cancelliere ha giustificato il defilarsi con una battuta: «Sono un pensionato, tocca ad altri». Ma la vera ragione per cui lo si è visto poco è che politicamente oggi Schröder, se non è un appestato, è quantomeno materia che scotta. Benché in pochi arrivino a negare l’evidenza che la sua riforma ha reso più dinamica e produttiva l’economia, nessuno nell’arco politico tedesco, specie a pochi mesi dalle prossime elezioni di settembre, se la sente troppo di elogiarla pubblicamente o di farsi fotografare al fianco del suo promotore. Non certo Angela Merkel, che non ha nulla da guadagnare nell’ammettere troppo apertamente che il boom di cui ha goduto la Germania nel corso dei suoi due mandati è frutto dell’opera del suo predecessore. E tantomeno il suo rivale Peer Steinbrück della Spd (già ex ministro dell’Economia nel primo governo Merkel).

Già, perché lo scotto più drammatico per l’attuazione del pacchetto di Agenda 2010 è stato pagato proprio dagli uomini che lo hanno portato alBundestag. Per la “sua” riforma, Schröder non ha solo fatto harakiri della sua carriera di Cancelliere, ma ha letteralmente spaccato l’Spd, gettandolo in una crisi di consensi e linea politica senza precedenti nella storia del partito più antico di Germania. I numeri sono schiaccianti: prima di Agenda 2010 l’Spd godeva in media di un consenso storico intorno al 35%, oggi siamo al 24%. Prima di Agenda 2010, l’Spd contava 690 mila iscritti, oggi siamo a 440 mila. Prima di Agenda 2010, soprattutto, l’Spd era il partito con cui le principali unioni sindacali si identificavano, oggi la maggior parte di esse se ne è dissociata, aprendo un oceano di opportunità elettorali a sinistra, che sono state colte in particolare dai Verdi e dal Die Linke (La Sinistra) fondato dallo scissionista Spd Oskar Lafontaine. Un partito che, parole del suo leader, ha come obiettivo «non il miglioramento ma il sovvertimento dell’ordine capitalista».

Non è esagerato scrivere che Agenda 2010 ha causato nell’intera struttura politica della sinistra tedesca un’attacco di schizofrenia, con effetti devastanti sul breve-medio periodo, ovvero nell’immediatoaftermath della sua attuazione, e di profonda mutazione organica sul lungo. Non è un caso se oggi Steinbrück, più che a recuperare i voti persi alla sinistra del suo schieramento, punti, con ferme dichiarazione di rigore rispetto alle richieste dell’Europa del Sud, a guadagnare percentuali di consenso presso l’elettorato conservatore. Non è un caso che l’attuale presidente della Spd Sigmar Gabriel un giorno rivendichi con orgoglio Agenda 2010 come un successo politico del suo partito strizzando l’occhio ai liberisti, alla medio-alta borghesia progressista e a qualche conservatore… per poi, dopo aver letto i sondaggi usciti a seguito di quelle dichiarazioni, ricalibrare il tiro, ammettendo che qualche correttivo va apportato per non perdere ulteriori supporto dalla “base” dei piccoli salariati. Dopo Agenda 2010, l’Spd, un tempo una forza politica ispirata a un progressismo di chiara matrice social-democratica, si è trasformato in un partito che naviga a vista, alla ricerca di un equilibrio cerchiobottista che non gli alieni ulteriori voti tra le milioni di tute blu che vivono nella Ruhr(suo feudo storico, perduto – indovinate un po’ – dopo Agenda 2010 e solo di recente riconquistato) ma nemmeno troppo le simpatie dei suoi Grandi Elettori riformisti che risiedono a Monaco e ad Amburgo. Un giorno non c’è nulla di male in un po’ di sano neo-liberismo, il giorno seguente un po’ di Stato sociale è tutto quello che ci vuole.
Paradossalmente quindi l’eredità di Schröder e della sua Agenda, anche grazie alla quale Angela Merkel può assegnare agli altri paesi i suoi famosi “compiti a casa,” si potrebbe rivelare ora un problema capace di ingolfare, sul lungo periodo, la locomotiva tedesca. Come è difficile sostenere che in termini macroeconomici le azioni di Schröder non abbiano giovato alla Germania, è altrettanto difficile restare miopi davanti all’aumento di sperequazione sociale, la forbice tra ricchezza e povertà, da esse prodotto. I provvedimenti in materia di welfare e flessibilità del lavoro denominati Hartz I,II,III,IV (dal nome dell’ex manager di Volkswagen che li ha messi a punto) hanno per esempio alimentato un indotto lavorativo che si basa su meccanismi di impiego interinale spesso sottopagato e poco tutelato. Si tratta dei cosiddetti mini-job, responsabili secondo alcuni di aver dopato i numeri dell’occupazione e forieri di futuri potenziali problemi socio-economici non ancora emersi. Non è un pregiudizio del giornalista, è stato lo stesso Schröder ad ammetterlo in un’intervista concessa alla Bild di recente in cui, tra l’altro, invitava gli attuali responsabili del governo a correggere questa stortura.

L’Agenda ha creato un miniverso di neo-proletariato precario che, dopo di essa, non si fida più dei referenti politici tradizionali e che, sempre più spesso, viene sedotto dalle sirene di nuovi partiti che raccontano di trasformazioni sociali radicali, tra cui l’ormai celebre Partito Pirata. O da altri che definiscono, come ha fatto con me una esponente del Die Linke con cui ho parlato, le riforme di Schröder «insensibili a qualunque considerazione per la dignità umana» con un astio che nemmeno un minatore dello Yorkshire per Margaret Thatcher. D’altra parte la stessa economia tedesca dà segni di nuova, leggera contrazione. E più d’una voce ha cominciato a evidenziare la necessità di un’Agenda 2020 che tenga conto dell’ulteriore invecchiamento della popolazione, alzando l’età pensionabile a 70 anni, introduca misure più efficienti per l’utilizzo dell’immigrazione nella forza lavoro e abbassi ulteriormente spesa pubblica e carico fiscale. Come ha dichiarato Christoph Schmidt, membro del concilio dei cinque saggi che consiglia il governo tedesco in materia economica: «Abbiamo ancora un grande bisogno di riforme. Purtroppo però tutti i politici sembrano ignorare la questione».

La cosa ovviamente non sorprende, visto che, all’interno dell’Spd, usare la parola “Agenda” in pubblico è letteralmente un tabù. Quindi prima che il riformismo torni di moda in casa dei social-democratici passerà del tempo; almeno finché le percentuali del consenso non torneranno vicine, se mai lo faranno, alle medie storiche. Dal canto suo, la Cdu di Angela Merkel sembra più orientata a costruire le proprie fortune elettorali e la propria azione di governo facendo a braccio di ferro sui debiti dei cugini poveri d’Europa.

Dieci anni fa la Germania ha fatto per prima, e di propria iniziativa, i “compiti a casa” e si è messa così, con grandi sacrifici, al riparo dalla Crisi; soprattutto grazie alla volontà di un singolo uomo politico che seguiva il principio secondo cui «guidare un paese significa avere il coraggio di prendere decisioni che sono necessarie anche a costo di non essere rieletti». Dieci anni dopo, per un’ironia nemmeno troppo imprevedibile della Storia, l’eredità di quella vicenda potrebbe trasformarsi in un fardello troppo pesante da portare.