Umberto Broccoli, Sette 4/10/2013, 4 ottobre 2013
DA PLINIO A OGGI, LA TIFOSERIA È IL MOTORE DELLE PASSIONI
Passano secoli e millenni e l’atteggiamento è sempre lo stesso: il tifo e i tifosi sono spesso fuori misura. Plinio il Giovane è il nipote di Plinio il Vecchio, ambedue originari di Como. Una famiglia importante, benestante, di alti funzionari imperiali. Lo zio, grande erudito, scriverà la Naturalis Historia, una specie di enciclopedia del vivente. Non solo, ma dirigeva la flotta romana di stanza a Miseno e, tra gli incarichi dei marinai, c’era anche quello di far stendere i “vela”, le tende per coprire le tribune del Colosseo a Roma. Nonostante questo, Plinio il Vecchio ama la cultura, la ricerca, la riflessione organica e si farà lasciare dai suoi marinai accanto al Vesuvio in piena eruzione in quell’agosto del 79 dopo Cristo, nel quale spariscono Pompei ed Ercolano. Ma sparirà anche lui per la curiosità intellettuale di voler vedere e studiare da vicino quel fenomeno straordinario. Lo racconta proprio suo nipote Plinio il Giovane, altro manager di Stato, al servizio dell’imperatore. Plinio il Giovane passa a Roma buona parte del suo tempo. E la Roma del suo tempo non era molto differente dalla Roma di sempre: caotica, trafficata, chiassosa, nevrotizzante. Tranne in un momento particolare: quando ci sono i giochi del circo. Allora il caos si concentra tutto accanto allo stadio o agli anfiteatri e il resto della città è deserta. In quei momenti Roma diventa vivibile.
Immunità. Lo scrive proprio Plinio il Giovane al suo amico Calvisio. «Plinio saluta il suo amico Calvisio. Ho lavorato per un po’ di tempo nella calma più assoluta, circondato dai miei libri. Ti chiederai come io abbia fatto, stando in città, ma la risposta è semplice: erano in corso gli spettacoli del circo, che non mi attraggono affatto. Sono sempre uguali, e non succede mai niente che valga la pena di essere visto due volte: per questo mi stupisco ancora di più che migliaia di persone si entusiasmino come bambini a vedere cavalli in corsa e uomini ritti sui carri. Se gli spettatori fossero affascinati dalla velocità dei cavalli e dall’abilità dei conducenti capirei il loro interesse, ma essi guardano solo il colore delle varie scuderie, applaudono solo quello. Se nel bel mezzo della corsa i colori venissero scambiati anche l’interesse e gli applausi cambierebbero obiettivo, e la gente inveirebbe contro i cavalli e i conducenti di cui ora canta le lodi. Quando penso che essi se ne stanno seduti a guardare una cosa tanto monotona, noiosa e scipita, e non ne hanno mai abbastanza, mi diverte il pensiero di essere immune da un tale divertimento». Ricorda da vicino la bellezza di certe passeggiate attuali al centro delle città mentre sono in corso le partite di un campionato mondiale di calcio: la città è deserta, attraversata da un silenzio frastornante e irriconoscibile, rotto di tanto in tanto dalle urla ovattate e simultanee di chi sta seguendo la partita alla televisione nelle case. Camminando, incontri similitudini o fastidi. Le similitudini sono con chi vive lo stesso disinteresse per il calcio catodico e totalizzante. E, incontrandosi, scatta uno sguardo di solidarietà complice, limitato nel tempo: perché tutto tornerà come prima dopo i novanta minuti. O forse peggio di prima, se la partita prevede un passaggio di turno o, addirittura, una coppa: in quel caso si passerà dal silenzio al delirio delle automobili per strada con clacson impazziti a ritmare il tempo di slogan politici oramai dimenticati, alle bandiere sventolate, ai corpi seminudi affacciati da finestre e finestrini, a tuffi nelle fontane pubbliche schizzando ovunque, così, tanto per festeggiare. In una ritualità nata all’indomani del 17 giugno del 1970, dopo l’altalena emotiva di Italia Germania 4-3. Allora era liberatoria: da quel momento, solo ripetitiva. E, accanto alle solitudini, incontri anche i fastidi. E qui gli sguardi sono bassi, nervosi e affrettati: perché non si è arrivati a tempo di fronte al televisore e si è costretti a immaginare la partita seguendo l’ondeggiare degli ululati ovattati di chi si è messo in anticipo davanti al teleschermo e ora frigge sui divani, dietro le finestre.
Quinto Settimio Florenzio Tertulliano è un grande polemista. È cristiano, nasce a Cartagine e vive tra II e III secolo dopo Cristo. È un protagonista della “nova religio”, del cristianesimo nascente e ne difende i contenuti a spada tratta. Attorno al 200 scrive il De spectaculis e si scaglia con la sua veemenza contro i giochi del circo. Inutilmente, vedremo. Perché, se all’inizio riesce a fare breccia nella società del tempo desiderosa di cambiare passo, dopo un po’ la spinta moralizzatrice si va esaurendo. E si tornerà da capo a far tifo per gare e battaglie negli stadi e negli anfiteatri. Comunque Tertulliano è feroce. «Se dunque a noi cristiani è vietata questa follia, allora teniamoci alla larga da ogni genere di spettacolo, anche dal circo, dove comanda una follia specifica. Guarda il popolo, come arriva già folle allo spettacolo, già disordinato, già cieco, già eccitato dalla follia! Il pretore è per lui troppo lento, gli occhi della gente sono nell’urna, dove per così dire vengono mischiati insieme ai sorteggi. E poi aspettano trepidanti il segnale del via! Un unico urlo, un’unica follia! Puoi riconoscere la loro pazzia dal loro ridicolo comportamento: appena egli ha fatto partire i tiri, essi si raccontano e si annunciano a vicenda ciò che tutti hanno visto. Così prende il via la follia, la rabbia, il furore, la discordia e tutto quanto non si addice ai preti della pace». «Dura minga» diceva Umberto Melnati nelle sue scenette radiofoniche. E Vittorio De Sica rispondeva: «Non può durare». E, infatti, dura minga. VI secolo dopo Cristo, circa trecento anni dopo le invettive di Tertulliano. La potenza dell’Impero Romano è oramai solamente un ricordo. È un momento particolare per la storia del mondo occidentale. Popoli provenienti dal Nord Europa, dall’Africa, dall’Oriente, sono entrati in contatto con i resti dell’Impero Romano. C’è una forte recessione accompagnata dai soliti fenomeni legati all’inflazione. Aumento dei prezzi, ricchezza mal distribuita e, soprattutto, grandi sacche di emarginazione e povertà. Ma i giochi del circo sopravvivono fra entusiasmo del popolo e dei politici. Anzi, la situazione giustifica ancor di più il fanatismo da stadio, quasi fosse una valvola di sfogo per dimenticare – con la violenza – i problemi proposti dalla vita quotidiana. E tutto questo alla faccia delle invettive di Tertulliano e di tanti altri schierati come lui. In quel periodo il pubblico va in delirio per le corse dei carri. Tanto per cominciare, anche allora il pubblico faceva tifo sì, ma faceva tifo non solo e non tanto per i singoli fantini o per i cavalli, ma parteggiava per una fra le quattro squadre esistenti. Fantini e cavalli, infatti, erano contesi fra quattro factiones individuate da quattro colori. Alla factio albata appartenevano i fantini dalla casacca bianca. Alla factio russata facevano riferimento i fantini dalla casacca rossa. La factio prasina raccoglieva tutti i fantini dalla casacca verde e infine la factio veneta comprendeva tutti quei fantini dalla casacca azzurra. Dovete, allora, immaginare il popolo di Roma e di ogni altra città dove si svolgevano le gare del circo rigidamente suddiviso in sostenitori dell’una o dell’altra squadra. Rigidamente e ferocemente suddiviso in sostenitori dell’una e dell’altra squadra: i prasini odiavano i russati, i russati disprezzavano gli albati, gli albati a loro volta avrebbero voluto vedere morti i veneti. E dichiarazioni di intenti del genere non rimanevano tali: le storie della storia sono costellate di risse fra tifosi dell’una e dell’altra squadra, con contusi, feriti e morti. Gli scrittori contemporanei tentano di prendere le distanze da queste manifestazioni di idiozia, senza arrivare nell’immediato a nessuna soluzione efficace. La risoluzione è di ben altra portata: tutto scompare allorquando si metterà la parola fine alle corse con i carri. A quel punto sparirà la ragion d’essere del tifo. Prima, andare alle corse era un rito, con i suoi tempi, i suoi costumi.
III millennio. Una domenica pomeriggio qualsiasi, nello stadio di una città italiana qualsiasi. Tribuna vip, esterno giorno: tra i signori illustrissimi, tanti politici ragionano sui piedi dei calciatori e partecipano alle vicende delle loro squadre.
Ribaltone bizantino. Metà del VI secolo dopo Cristo. Stadio di Bisanzio. Giustiniano assiste alla gara fra i carri, lo sport più popolare del periodo. Corrono le quattro squadre a colori. Giustiniano tifa e con lui tifano tutti i dignitari della corte di Bisanzio, ordinati sulle gradinate. Tifa anche Teodora, moglie di Giustiniano: non si sa se per i carri o direttamente per i fantini, considerando l’opinione degli scrittori contemporanei («La sua prima ambizione è l’adulterio», sentenzia Procopio di Cesarea, storico ben introdotto alle faccende segrete di casa imperiale). Il popolo partecipa, urla, soffre, si appassiona, si schiera, si divide, sostiene i colori delle squadre. La febbre dello stadio – nella Bisanzio del VI secolo dopo Cristo – fa dimenticare la dittatura di Giustiniano, le tasse di Giustiniano, le guerre di Giustiniano, le spese di Giustiniano, la moglie di Giustiniano. E il potere politico di Giustiniano sa cavalcare la febbre per i cavalli dello stadio, nella Bisanzio del VI secolo dopo Cristo. Perché allora il potere politico è direttamente legato allo sport. Tifosi delle squadre e sostenitori di partiti politici si mescolano e si confondono. Scrive Procopio: «Il popolo era da tempo diviso in due partiti. Giustiniano si fece amico quello degli azzurri, per il quale non parteggiava prima, e così riuscì a rimescolare e sconvolgere tutto».
Un bel ribaltone bizantino in cui Giustiniano prima si schiera con i verdi, poi passa agli azzurri. Un ribaltone bizantino «con la conseguenza che l’intero Impero romano fu scosso dalle fondamenta come da un terremoto o da un cataclisma o come se ogni città fosse preda dei nemici». Parola di Procopio. E la rivoluzione si manifesta anche nelle forme. È necessario identificarsi come seguaci degli azzurri e del potere. Procopio si guarda intorno e racconta il cambiamento. «Per prima cosa gli azzurri estremisti rivoluzionarono la foggia dei capelli. Barba e baffi non li toccavano, ma amavano farseli crescere il più possibile all’uso persiano; invece i capelli se li tagliavano sul davanti fino alle tempie, e dietro li lasciavano cadere lunghi e incolti, come gli Unni». Gli azzurri estremisti non vogliono essere confusi con gli altri gruppi, non si vogliono uniformare. Ragion per cui scelgono una loro uniforme: barbe, baffi capelli lunghi sulle spalle e rasati sul davanti «come gli Unni», nota Procopio. Evidentemente gli Unni, barbari dell’alto medioevo, di tanto in tanto tornano di attualità. Ma per essere azzurri, seguaci del potere, rispettati e temuti allo stadio ci si deve anche vestire bene. Procopio è chiarissimo: «Tutti ci tenevano all’eleganza e si mettevano vestiti assai più vistosi di quanto non comportasse la condizione di ognuno: è chiaro che riuscivano a procurarseli con mezzi illeciti». Solo se acconciati e vestiti bene, si può appartenere alla squadra di Giustiniano, imperatore e tifoso azzurro. Nella Bisanzio del VI secolo dopo Cristo, un azzurro può incontrare un verde per strada: in quel caso sono botte da orbi nel nome della fede nella squadra e al riparo del nome dell’imperatore. «Gli estremisti azzurri lasciavano per terra il malcapitato, senza che l’autorità preposta all’ordine pubblico prendesse provvedimenti contro i colpevoli», commenta Procopio. E Giustiniano? Cosa fa Giustiniano, capo degli azzurri, tifoso e imperatore nella Bisanzio del VI secolo dopo Cristo? Giustiniano si rivolge ai capi degli estremisti e «(…) molti se li teneva accanto, alcuni ritenendo di investirli di cariche e dignità», chiude Procopio. Noi non sappiamo se anche allora al lunedì sera ci si riuniva in circolo, per «stigmatizzare l’accaduto, perché lo sport non c’entra nulla con la violenza e la politica». Ma sappiamo che – dopo Giustiniano – è subito Medioevo.
Stipendi d’oro. «Vincas, non vincas te amamus Polydoxe!», «Vincitore o no, ti amiamo Polidosso»: questa frase d’amore è scritta sul pavimento a mosaico di un palazzo antico in Numidia. L’innamorato si chiama Pompeiano ed è il proprietario dei locali. Non è la testimonianza di una storia d’amore fra uomini del periodo romano, anche se pienamente legittima per la mentalità di allora. Polidosso è un cavallo e la dichiarazione d’amore di Pompeiano si riferisce logicamente alla sua passione per le corse del circo delle quali Polidosso è protagonista. E non è nemmeno tanto singolare: è una manifestazione di tifo e il tifo è fede. Lo dimostrano tutti i muri moderni vicino agli stadi del giorno d’oggi, grondanti parole d’amore ai beniamini vari dello sport della pedata. Nel II secolo Polidosso è il cavallo che fa innamorare: oggi la squadra del cuore «non si discute, si ama». Del resto Incitatus, collega equino di Polidosso, aveva fatto perdere la testa a Caligola. E quando l’imperatore lo nominerà senatore, non lo farà per spregio al senato o perché preferiva i cavalli alle donne, ma perché amava oltremisura i cavalli da corsa. I nostri campioni di calcio non hanno forse onori del genere quando i loro piedi ci rappresentano nel mondo? Non vengono insigniti di onorificenze, commende, croci al valore e chi più ne ha, più ne metta? È fin troppo evidente la passione per cavalli e corse del circo, nelle quali cavalli e cavalieri sono considerati come divinità. Tutti amano i fantini del circo: politici, mercanti, gente del popolo, donne. Le donne sognano storie d’amore con questi personaggi maledetti, infidi, ex condannati a morte cui era stata risparmiata la vita a patto di rimetterla in gioco nel circo. «La peggiore feccia del circo!»: così gli scrittori contemporanei descrivono i fantini in gara per le duecentomila persone affollate sulle gradinate degli stadi antichi. Ma più sopravvivono ai naufragi (i fuori pista dei carri, frequentissimi e generalmente mortali per il fantino), e più accumulano gloria, fama e ricchezze spropositate. Un fantino sopravvissuto e vincitore è strapagato dalla sua squadra, purché non corra con una delle squadre avversarie. Ricordiamo qualche nome di questi eroi popolari, semidivinizzati: Pompeo Epafrodito vincitore per 1.467 volte, Pompeo Muscloso campione con 3.559 coppe e tanti altri ancora. Due in particolare hanno fatto parlare di sé. Uno è Diocle, atleta versatile, 3.000 volte vincitore nella corsa delle bighe e 1.462 volte incoronato nella corsa delle quadrighe: attorno al 150 d.C., acclamato dalla folla, sopravvissuto a tanti pericoli, decide di ritirarsi dall’arena con un attivo di 35 milioni di sesterzi. Una cifra da capogiro specie se confrontata con gli otto assi alla settimana guadagnati da un maestro di scuola. Praticamente la differenza fra Diocle e quel maestro è la stessa che passa fra uno stipendio di qualche centinaio di euro e diverse decine di milioni. Accanto a Diocle le gazzette di allora ricordano Scorpo, acclamato, conclamato e celebrato anche dai letterati, impegnati da sempre a genuflettersi di fronte alla forza bruta. In questo caso Marziale si inchina scrivendo «ovunque risplende il naso d’oro di Scorpo». Per dire come ovunque a Roma era il ritratto del fantino: sui muri, nelle case, nelle strade, sulle bancarelle del mercato. Si perdona tutto a costoro, fuori della pista di gara. Gli aurighi in libera uscita non pagano il conto nelle locande, si ubriacano, urlano, fracassano i timpani e la testa della gente per strada se non tollera le urla, si trastullano con qualche ragazza presa al volo prima del portone di casa loro. Si perdona tutto a questi personaggi pubblici, semidei dello sport, perché è costume perdonare al personaggio pubblico l’arroganza, la maleducazione, l’inciviltà. Almeno al tempo dell’antica Roma. O no? Probabilmente per queste storie non c’è finale, perché si ripropongono più o meno immutate nei secoli dei secoli. Il finale è scritto altrove e ha il colore malinconico della chiusura della carriera dei campioni dello sport. Euripide è quell’autore di tragedie messe in scena ancora oggi. Vive nel V secolo avanti Cristo e – fra le tante situazioni drammatiche – ne racconta una particolarmente toccante: l’ultima pagina della storia di uno sportivo, acclamato come eroe semidivino fino a quando era in attività e completamente dimenticato da vecchio. Quanti ne conosce la storia dello sport: praticamente, tutti. Ecco Euripide: «Mentre in Grecia ci sono diecimila malati, nessuno sta peggio dell’intera classe degli atleti. Prima di tutto essi non imparano a vivere bene, né potrebbero farlo; come potrebbe un uomo, essendo schiavo della sua gola e dei suoi appetiti, acquistare ricchezza superiore a quella del padre? Non possono adattarsi alla povertà, né conformarsi alla fortuna. E non essendo abituati alle buone usanze, cadono presto in una dura miseria. Da giovani si aggirano in vesti pregiate, e credono di onorare la città. Ma quando la vecchiaia in tutta la sua asprezza raggiunge i loro passi, vagano per le strade come mantelli laceri, dal pelo consumato».
Come Euripide, Claudio Baglioni ripercorre questa fase delicata della vita di un campione. Lo fa in Solo nel 1975. È la solitudine di un pivot di trentotto anni, «con il tocco ancora buono», un tempo acclamato dalla folla: oggi, solo, nei campetti di periferia, riconosciuto ancora da chi lo ricordava imponente sotto canestro. Parola di Claudio: «Il pallone mi colpì / d’un tratto mi svegliai / dai miei pensieri vuoti / l’uomo un gigante mi guardò / due metri contro il blu / una camicia a quadri... / sui trentotto – forse – appesantito ma / con il tocco ancora buono». È un capolavoro nel descrivere le atmosfere di fine carriera. Tutto è decadente: l’abbigliamento dell’ex campione, il suo essere un po’ appesantito, il panorama intorno, un piccolo campetto di periferia, forse una parrocchia dove – di sera – i ragazzi hanno smesso di giocare. «Nel cortile odor di cena e di TV / prime luci della sera. / Con una finta si smarcò / io svelto gli passai / e lui schiacciò di forza...». Stanno giocando in due, da soli, mentre arrivano, simboliche, le luci della sera, dopo il tramonto. Un gesto atletico del genere è il ricordo del passato. E in passato, avrebbe mandato in delirio la folla. E ora? «Sotto il cerchio parve quasi di sentir le gradinate / che tremavano e gridavano per lui / ed anch’io battei le mani per quell’ultimo canestro / mi sorrise ed in silenzio se ne andò / il pallone sotto il braccio e se ne andò».
Immagine straordinariamente bella e altrettanto straordinariamente malinconica. Perché smettere l’agonismo, non è una cosa così semplice. Progressivamente ci si rende conto di un invecchiamento. Vedi i tuoi compagni più giovani, più agili: recuperano prima le stanchezze. E tu, campione di ieri, devi allenarti di più se vuoi restare al loro livello. Al livello di quei ragazzini visti crescere e di cui eri punto di riferimento. Ora, con loro, devi faticare di più e la sera ti senti cento volte più stanco. Mentre loro, i ragazzi, sono in giro a passeggiare, a mangiare una pizza, a prendere un gelato. E tu non ce la fai: preferisci una poltrona dopo l’allenamento. Su quella poltrona rivedi le tue azioni di gioco, applaudite da quei ragazzini della squadra giovanile, ai bordi del campo. Oggi sono con te in campo. Anzi: ora tu sei stanco e loro sono in giro per la città. Sei invecchiato di colpo: è bastata un’estate per presentarti diverso al momento della preparazione atletica. Allora in campo vanno i ricordi: le cose migliori difficilmente torneranno. Non puoi rassegnarti alla panchina e quindi devi smettere. Lo fai. Subito. Non indugi. Da quel momento ti mancheranno le docce gelate o bollenti (mai giuste) delle trasferte. La tensione prima delle gare, le rivalità risolte nel segno del vinca il migliore, gli scherzi sul pullman, la diffidenza verso l’allenatore nuovo, la crisi dopo una gara andata male, la gioia dopo una gara andata bene, gli abbracci alla fine di una partita, l’acqua bevuta insieme da una stessa bottiglia, il sudore piacevole della fatica, gli amici dello spogliatoio: fra i pochi reali, perché con loro hai condiviso tutto questo, mettendoti a nudo, nel segno del rispetto dei ruoli e del merito. E anche tutto questo è ben lontano dallo sport di poltrona e delle chiacchiere esaltate dei bar ricostruiti nelle radio e nelle televisioni.
Umberto Broccoli
(fine - la prima parte è uscita il 20 settembre sul n.38)