Veronica Artioli, Sette 4/10/2013, 4 ottobre 2013
RITROVATO DOPO 500 ANNI IL MERAVIGLIOSO RITRATTO CHE LEONARDO DA VINCI FECE A ISABELLA D’ESTE
Milano, dicembre 1499. I francesi invadono la città. «Il duca (Ludovico Sforza, ndr) ha perso lo Stato e la libertà!». Con queste parole Leonardo fugge dal capoluogo lombardo e trova riparo a Mantova presso la corte dei Gonzaga, ospite di Isabella d’Este, sposa di Francesco Gonzaga e sorella di Beatrice, moglie del Moro. La Signora di Mantova riesce a strappargli, dopo aver ottenuto un ritratto a carboncino, la promessa un giorno di «farla di colore». Da quel momento la storia del Ritratto di Isabella d’Este, un quadro entrato nel mito, chimera di molti studiosi, s’intreccia indissolubilmente alle complesse vicende del suo tempo e dei suoi protagonisti, in una girandola di lettere, messaggeri, testimonianze, ripensamenti, incontri e avvistamenti, veri o presunti, finiti sempre in un nulla di fatto che ha condannato quest’opera a essere reclusa nel limbo dei ritratti perduti.
Cinque secoli nell’oscurità. Fino a oggi, quando Isabella è riemersa dal bunker di un caveau svizzero, a testimoniare che Leonardo da Vinci mantenne la promessa fatta nel lontano 1500: il ritratto «de colore» di Isabella d’Este esiste ed è stato dipinto dal grande maestro toscano nell’ultimo periodo di attività. Lo assicura il professor Carlo Pedretti, massima autorità vivente su Leonardo (Emeritus di Storia dell’arte italiana presso l’Università della California, direttore del Centro Studi Vinciani dell’Hammer Museum di Los Angeles, cittadino onorario della città di Vinci e autore di numerosi libri, articoli e saggi su Leonardo tradotti in tutto il mondo), che fuga ogni dubbio: «La tela è autentica» (vedi l’analisi qui a fianco). E potete vederla, per la prima volta dopo mezzo millennio, riprodotta in queste pagine. È un olio su tela di 61 x 46,5 centimetri e rappresenta la fedele trasposizione del celebre disegno preparatorio esposto al Louvre, finora l’unico ritrovato del genio toscano. Le coincidenze sono evidenti e lo stile del maestro inconfondibile anche a occhi non esperti: la luminosità del volto, l’uso del colore e, in particolare, l’ineffabile sorriso che aleggia sulle labbra di molti personaggi leonardeschi, la Gioconda in prima fila.
La scoperta è clamorosa anche se il ritrovamento ha ancora poche certezze (ma speriamo di darvele in futuro). È avvenuto, quasi casualmente, tra le opere della collezione privata di una famiglia italiana che vive tra il Centro Italia e la Svizzera tedesca (la cittadina di riferimento sarebbe Turgi, nel cantone Argovia). La collezione, circa 400 quadri, si trova in Svizzera almeno dall’inizio del Novecento ed è probabilmente frutto degli acquisti fatti dai nonni degli attuali proprietari. Quella tela ha sempre attirato una particolare attenzione sulla base di indizi che venivano tramandati in famiglia e che solo tre anni e mezzo fa si sono trasformati in ricerche scientifiche (vedi la prova del Carbonio-14 a pag. 41, secondo cui il dipinto ha il 95,4% di probabilità di essere stato eseguito tra il 1460 e il 1650) e in analisi di esperti, in particolare, appunto, del professor Carlo Pedretti.
Una donna eccezionale. Ma se il ritrovamento è avvolto in una cornice piuttosto misteriosa, la storia del dipinto ha i colori del giallo. Dunque, nel 1499, Leonardo trova rifugio a Mantova, in una delle corti più rinomate dell’epoca, centro di una rete di raccordo delle principali signorie italiane e, perdipiù, governata da una signora illuminata, «prima donna del mondo» secondo fonti coeve, sicuramente una delle figure femminili più influenti del Rinascimento. Non è la prima volta che Isabella incontra Leonardo. L’aveva conosciuto ai tempi del matrimonio della sorella Beatrice con Ludovico Sforza detto il Moro, presso il quale il maestro lavorava, ed era rimasta affascinata dalla sua abilità pittorica qualche tempo prima, quando aveva potuto ammirare la suprema grazia del ritratto di Cecilia Gallerani, la famosa Dama con l’Ermellino. Ora Isabella si trova a ospitare Leonardo e non perde l’occasione per chiedergli di raffigurare «l’effigie nostra». Un diniego sarebbe stato scortese di fronte a tanta disponibilità della signora. Così Leonardo si mette all’opera e, secondo alcune fonti, traccia almeno due disegni del profilo della marchesa (mutuati da un modello araldico di Gian Cristoforo Romano). Uno sarebbe stato lasciato a Francesco Gonzaga, marito di Isabella, ma se ne son perse le tracce. L’altro, quello oggi custodito al Louvre, il pittore lo porta con sé nella successiva tappa a Venezia, come si legge nella lettera di Lorenzo da Pavia a Isabella datata 13 marzo 1500: «E l’è a Venezia, Leonardo da Vinci, el quale m’ha mostrato un retrato de la S. V. che è molto naturale a quela. Sta tanto bene fato, non è possibile melio». Per il momento, però, rimane disegno preparatorio anche se la marchesa insiste, nel voluminoso carteggio intercorso dal 1500 al 1506 tra lei, i suoi agenti e Leonardo, perché diventi ritratto a colori e possa finalmente prender posto nella sua Wunderkammer, lo Studiolo delle meraviglie, dove trovano ospitalità opere di Mantegna, Perugino, Lorenzo Costa e, in seguito, anche di Correggio. Ma non di Leonardo, il genio mancante.
Il maestro da Vinci, però, tornato a Firenze scopre altri interessi e, come si evince dalla corrispondenza, è preso dagli studi sulla geometria al punto da sviluppare una certa insofferenza al pennello. Il ritratto di Isabella può attendere. Ma lei no. E non desiste. In uno scritto del marzo 1501 a frate Pietro da Novellara ricorda l’impegno che l’artista aveva preso e «…appresso lo pregare ad volerne mandare uno altro schizo del retracto nostro». A questo punto Leonardo, tutto intento a servire Cesare Borgia (la cui sorella Lucrezia aveva sposato Alfonso d’Este, fratello della marchesa), le fa rispondere per mano di Manfredo de Manfredi «che egli ha iniziato ciò che V. S. desidera». Verità o diplomazia?
Fatto sta che, il 14 maggio 1504, la marchesa indirizza al maestro una lettera più esplicita in cui gli rammenta, con rammarico, la promessa fattale a Mantova «…quando fusti in questa terra, et che ne retrasti di carbono, ne promettesti farni ogni modo una volta di colore…». Ma, forse, in cuor suo non ci spera più. Così gli chiede di dipingere, per il figlio Federico Gonzaga, un «Christo giovenetto quando disputava nel tempio» (anch’esso mai eseguito o mai ritrovato).
Le risorse del maestro. La marchesa sembra disperare in un ritorno a Mantova di Leonardo e non crede che possa essere fatto un ritratto in absentia (ovvero non «dal vivo»). Ma il maestro è pieno di sorprese e crede addirittura nel contrario. Scrive infatti: «Quando hai fare un volto a mente, porta con teco un piccolo libretto dove sieno notate simili fazzioni… e fagli un piccolo segno per riconoscerle, poi a casa mettile insieme». Tradotto significa che l’artista ritiene di poter realizzare il ritratto di Isabella anche solo con il semplice disegno che, con ogni probabilità, aveva portato con sé da Mantova a Venezia, poi a Firenze e, infine, a Milano. Sulle sue capacità nessuno oggi dubita, ma portò veramente a termine il ritratto di Isabella? Alcuni indizi lo farebbero supporre perché Leonardo aveva disegnato un cartone preparatorio a un dipinto e non un semplice bozzetto: il disegno del Louvre, oltre a essere di un formato a grandezza naturale, atipico per uno schizzo, presenta anche una serie di forellini lungo le linee di contorno. A testimoniare come fosse pronto per lo spolvero, la tecnica con cui si riportavano, tramite un tampone, i puntini che avrebbero guidato la mano dell’artista sul supporto finale. Basta questo a garantire le buone intenzioni di terminare l’opera? La sicurezza non c’è.
Nella città eterna. Di sicuro c’è che, in quegli stessi anni, cioè tra il 1503 e il 1506, Leonardo mette mano alla Gioconda e la porta a compimento, dopo una serie infinita di ritocchi, tra il 1513 e il 1516 mentre presta servizio a Roma. Il professor Pedretti, a questo proposito, ricorda come il ritratto di Isabella, «unico di questo tipo al mondo», risalirebbe verosimilmente all’ultimo periodo di attività di Leonardo e dei suoi affezionati discepoli (Salai e Melzi) che nel 1514 si unirono a lui mentre si trasferiva da Milano alla città eterna, ospite in Vaticano di Giuliano de’ Medici, fratello del Papa. E, proprio nell’ottobre del 1514, anche Isabella d’Este dimora a Roma, invitata dal Pontefice stesso e da Giuliano. Fu quella la volta buona dell’incontro artisticamente galeotto tra il genio e la marchesa che produsse il ritratto oggi clamorosamente ritrovato? Probabile, anzi quasi certo, secondo Pedretti, che non esita a riconoscere la mano propria di Leonardo, particolarmente nel volto, anche se il resto potrebbe essere stato portato avanti dal Salai o dal Melzi. D’altra parte, in soccorso di questa sua opinione, ci sarebbero anche fonti e documenti dell’epoca.
Le risorse del maestro. 10 ottobre 1517. Il genio da Vinci, passato al servizio del re di Francia, mostra, nel castello di Cloux, al cardinale Luigi d’Aragona alcune opere tra cui probabilmente la Gioconda. Il giorno seguente, nella biblioteca del maniero reale di Blois, situato a dieci leghe da Cloux, il canonico Antonio De Beatis, segretario del cardinale, annota sul suo diario: «Vi era anche un quadro dove è pintata di oglio una certa Signura di Lumbardia di naturale, assai bella, ma a mio giudizio non tanto come la Gualanda» (per la cronaca, Isabella Gualanda, favorita di Giuliano de Medici, è uno dei nomi più accreditati nell’identificazione della Gioconda). Potrebbe, dunque, essere Isabella d’Este quella «certa Signura di Lumbardia» ritratta con l’indice che punta un libro e per questo esposta nell’insolita collocazione della biblioteca di Blois?
Il mistero si complica. Lo storico Giovanni Lomazzo (e per la verità non solo lui) nel Trattato dell’arte, della pittura (1584) accenna a due «ritratti di Leonardo, come la Gioconda e la Monna Lisa nei quali ha espresso mirabilmente la bocca in atto di ridere», aprendo così alla possibilità che la Gioconda e la Mona Lisa (o Monna Lisa) siano due quadri distinti, separati. Se così fosse, Mona Lisa sarebbe una dama diversa dalla Gioconda. Ma chi? Forse la Signora di Lombardia? Mona Lisa diventerebbe la contrazione di Mona l’Isa, abbreviativo informale per Isabella preceduto dall’articolo la, come si usa “alla lombarda”. Di fronte a ciò, nuova attendibilità acquisterebbero anche le parole di Padre Dan, superiore del convento situato presso il castello di Fontainebleau (dove furono trasferite le opere provenienti dalla rocca di Blois) che, nel 1642, stilando l’inventario dei dipinti reali, correggeva l’identità della Mona Lisa definendola non una cortigiana come volgarmente si era ritenuto, ma una virtuosa Dama italiana, consorte di un gentiluomo ferrarese (o mantovano?), chiamato Francesco, a cui Leonardo aveva promesso di fare il ritratto della moglie. Poteva trattarsi di Isabella d’Este marchesa di Mantova, moglie di Francesco Gonzaga? Le probabilità aumentano.
Dalla Gioconda all’Ultima cena. Di fatto la storia del ritratto di Isabella e quello della Gioconda si intrecciano, anche artisticamente. Il quadro della marchesa rappresenterebbe uno studio anticipatorio della Gioconda e, per certi versi, complementare. Una sorta di alter ego. Già nella presentazione del Louvre, relativa al disegno preparatorio di Isabella, si legge, infatti, che «le due opere sembrano rappresentare la progressiva idealizzazione del ritratto di Leonardo, il suo tentativo di creare figure che, sebbene realistiche, siano espressione della perfezione della bellezza universale». Lo schizzo è considerato dagli esperti uno studio importantissimo del maestro che, nell’invenzione nuova dell’assetto della figura, svelerebbe la solennità di stile maturata nell’Ultima cena. Lo dimostrerebbero l’ambigua scelta della posa, con la rotazione lenta e scultorea dell’arco delle spalle; l’inedita disposizione delle mani, con l’indice che punta un libro alludendo alla levatura mentale del soggetto; e, soprattutto, lo sguardo intensamente profondo lanciato oltre il campo visivo, nonostante la scelta del taglio di profilo, voluto dalla marchesa che non amava affrontare il difficile dialogo degli occhi negli occhi.
Nel libro La bella principessa, Martin Kemp – uno dei più insigni e stimati conoscitori dell’artista – afferma che oltre alla sperimentazione di posizioni non convenzionali della testa e del corpo, Leonardo era affascinato dalle potenzialità espressive del tradizionale ritratto di profilo: «Nel suo Paragone delle arti il maestro da Vinci sostiene che il pittore può descrivere a pieno ogni aspetto di un modello attraverso due mezze figure». Proprio in quegli anni la riflessione sul ritratto avrebbe portato Leonardo a uno studio preciso e sistematico in cui le «arie de visi» erano ritratte secondo «li acidenti», con quella misteriosa intensità psicologica che si manifesterà principalmente nella galleria dei suoi rari ritratti femminili.
Ma queste sono sottili disquisizioni di critica artistica. E nel labirinto delle disquisizioni e delle teorie possibili, sono ancora molti gli interrogativi a cui dare risposta. Tanto più che oggi, il ritratto di Isabella d’Este, blindato in una cassaforte elvetica, sta ancora affrontando il più lungo dei viaggi, quello delle perizie e delle controperizie, perché le attribuzioni a Messer Leonardo Vincio raramente si risolvono in un battito di ciglia, fossero anche quelle divine di Mona Lisa. Eppure, a ben guardare, il responso è già lì, racchiuso tra le ombre del profilo di questa Sfinge che da cinque secoli glissa allusiva con il più enigmatico dei motti di casa Gonzaga: «Forse che sì, forse che no…».
Veronica Artioli