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 2013  ottobre 04 Venerdì calendario

LA FUGA DAL CORNO D’AFRICA, LUOGO DI SOFFERENZA E PAURA


Il viso è scavato, gli occhi infossati. Sul loro volto si leggono le fatiche di un viaggio infernale, a volte durato mesi. Ma quello sguardo assente, perso nel vuoto, catturato ieri dalle telecamere, racconta anche i tormenti di un’intera vita trascorsa nella sofferenza. Il lungo viaggio dei disperati parte da luoghi dove la disperazione è parte della vita. Paesi dove la guerra è una realtà quotidiana, dove esprimere il dissenso può costare la vita, anche quella dei propri cari, dove a volte l’imperativo è sopravvivere. La maggior parte dei profughi sbarcati ieri a Lampedusa provenivano da Eritrea e Somalia, due ex colonie italiane nel martoriato Corno d’Africa.
La Somalia si è guadagnato negli ultimi 20 anni la nomea di Stato fallito. Da quando il dittatore Siad Barre è stato rovesciato, nel 1991, il paese ha vissuto una stato di guerriglia permanente. Prima in balia dei brutali signori della guerra, che hanno ridotto allo stremo la popolazione. Poi, nel 2006, è stata la volta delle Corti Islamiche, a loro volta spazzate via con una guerra lampo dall’esercito etiope. Subito dopo è scoppiata la brutale guerra portata avanti dagli estremisti islamici al-Shabaab, movimento affiliato ad al-Qaeda, contro le istituzioni somale riconosciute dalla Comunità internazionale. Un crescendo inarrestabile di guerre, in cui le gravissime e ricorrenti carestie non hanno fatto altre che peggiorare le cose. È difficile trovare un Paese con un numero così alto di sfollati interni (oltre un milione). Grazie anche al contributo militare del Kenya, a sua volta sceso in guerra contro gli Shabaab nel sud del paese, parte della Somalia si sta rimettendo in piedi. Oggi la Somalia ha un presidente eletto da un Parlamento rappresentativo, Mogadiscio è sotto il controllo delle truppe dell’Unione africana, nelle strade è riapparso un embrione di commercio. Ma la corruzione è endemica, la povertà dilaga, mentre gli ospedali non dispongono di farmaci sufficienti. Nell’esteso e poverissimo territorio ancora in mano agli Shabaab, vige un’interpretazione durissima della Sharia, estranea alla mentalità dell’Islam moderato somalo.
L’Eritrea è vicina alla Somalia. E se in questo Paese l’ultima e sanguinosa guerra, quella con l’Etiopia, risale a 13 ani fa, le condizioni di vita sono anche qui molto dure. Non è solo a causa della povertà e delle carestie, che mietono decine di migliaia di vite. Il severo rapporto di Human Rights watch tratteggia con efficacia il regime di Asmara: «Tortura, detenzioni arbitrarie, severe restrizioni alla libertà di espressione, di associazione e di religione, restano una routine in Eritrea. Da quando il Paese è divenuto indipendente, nel 1993, non sono mai state organizzate elezioni. La costituzione non è mai entrata in vigore i partiti politici non sono autorizzati».
L’Eritrea non ha conosciuto altro presidente che Isaias Afewerki, un uomo che da 20 anni governa il Paese con il pugno di ferro. Il servizio militare, denuncia Hrw, viene utilizzato come strumento per controllare un’intera generazione. Secondo l’International Institute for Strategic Studies, l’Eritrea è il secondo paese più militarizzato al mondo: oltre 200mila soldati su un popolazione di sei milioni di abitanti. Alla leva obbligatoria segue un servizio a "tempo indeterminato". Spesso fino a 50-60 anni, tornando a casa una volta l’anno e con un paga miserrima, che non consente di mantenere i propri familiari. Per molti giovani fuggire dall’esercito e abbandonare clandestinamente il Paese significa riappropriarsi della propria vite. Mettendo però a rischio quella delle proprie famiglie, costrette a pagare multe proibitive per la diserzione dei figli, finendo in prigione se non riescono a farlo, perdendo a volte la casa, la terra o i premessi per svolgere la propria attività lavorativa. L’accesso al paese per le organizzazioni umanitarie, continua Hrw, è praticamente impossibile. Di fatto non esistono media indipendenti. Lo ha confermato il presunto colpo di stato, avvenuto nel gennaio del 2013, di cui si è saputo poco o nulla. Nelle carceri si troverebbero dai 5mila ai 10mila dissidenti, detenuti da anni senza un processo. Ogni anno vengono denunciate sparizioni. Nonostante le ritorsioni che rischiano le famiglie, i pericoli di un viaggio pieno di insidie in mano a spregiudicati trafficanti attraverso il deserto, la possibilità di trascorrere mesi di attese in fatiscenti centri di detenzione libici, e infine il pericolo di morire annegati nella traversata del Mediterraneo, l’Eritrea è uno dei Paesi con il più alto tasso di emigrazione clandestina. Per molti giovani studenti fuggire appare spesso una scelta obbligata. Se non si attenueranno le crisi nei due Paesi, i clandestini che si imbarcano sulle carrette del mare alla volta delle coste italiane del Mediterraneo continueranno a formare un inarrestabile fiume in piena.