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 2013  ottobre 04 Venerdì calendario

SE L’UNICA STRADA RESTA LA CESSIONE DEL BRASILE


Le divergenze sul rilancio di Telecom Italia si sono rivelate insanabili. Inevitabili le dimissioni del presidente esecutivo Franco Bernabè, che da mesi sfidava l’azionista di riferimento, quella Telco che non poteva essere una soluzione definitiva per l’assetto di Telecom, ma che sei anni fa l’aveva collocato alla guida del gruppo. La ricerca di alternative alla compagine formata da un operatore concorrente, Telefonica, e da soci finanziari, per natura a termine (Mediobanca, Generali, Intesa–Sanpaolo) si è naturalmente sempre arenata sullo scoglio di un consiglio per i quattro quinti espressione dell’azionista di maggioranza relativa. Negli ultimi tempi, da quando Telecom ha iniziato a mostrare, con l’evidenza dell’emorragia del cash-flow, tutti i limiti di una gestione comandata sul taglio dei costi, dietro le quinte si sono rimpalleggiate le responsabilità della situazione. Colpa di un azionariato inadeguato a sostenere il rilancio del gruppo o colpa del management che non ha saputo tener testa alla concorrenza? Il risultato alla fine è che ha dovuto cedere il manager che sollecitava la ricapitalizzazione per liberare il gruppo dalla morsa soffocante di un debito minacciato dal declassamento a spazzatura e per compensare l’erosione degli attivi immateriali rappresentati dagli avviamenti creati dalle fusioni Olivetti-Telecom e Telecom-Tim. Cifre importanti, dell’ordine, rispettivamente, di 40 e 30 miliardi. L’alternativa alla ricapitalizzazione ora è solo una: la rinuncia al Brasile che finora aveva controbilanciato con la crescita il rallentamento del mercato domestico. Le attività in sovrapposizione in Sudamerica sono oltretutto il principale ostacolo a una vera integrazione con Telefonica, che l’Antitrust brasiliana non a caso ieri ha chiamato a rapporto. Dalla valorizzazione di Tim Brasil dipenderà la possibilità di sostenere con convinzione il piano di ammodernamento della rete fissa che l’Italia reclama.