Laura Galvagni, Il Sole 24 Ore 4/10/2013, 4 ottobre 2013
GESTITO IL DEBITO MA NON LA BORSA
«Il consiglio ha espresso i suoi vivi ringraziamenti a Franco Bernabè per il grande impegno e l’elevato apporto manageriale profuso in questi anni alla guida della società». Si chiude così, con un comunicato ufficiale diramato dalla società nel pomeriggio di ieri l’era di Bernabè al timone di Telecom Italia. Bastavano pochi mesi e avrebbe tagliato il traguardo dei sei anni al vertice della compagnia. Così non è stato e le ragioni sono tutte da ricercare nell’ultimo scontro, rivelatosi fatale, con gli azionisti Telco, il veicolo che controlla il 22,4% del gruppo telefonico. Da tempo, ormai, manager e socio forte parlavano una lingua completamente diversa. Con gli azionisti a mostrare tutta la propria insoddisfazione di fronte a un titolo in costante discesa, Telco è entrata nel capitale che le azioni valevano attorno a 2,3 euro mentre oggi viaggiano tra 0,5 e 0,6 euro, dividendi in diminuzione e un debito da dover fronteggiare. Mentre il manager era impegnato a ridurre la forte esposizione del gruppo telefonico e al contempo era proteso a cercare le risorse necessarie a finanziare il rilancio strategico della compagnia. Denari che, Bernabè ne era convinto, potevano arrivare solo da un aumento di capitale. Ma di ricapitalizzazioni il socio Telco non ha mai voluto sentir parlare: non si riteneva stringente la necessità di iniettare mezzi freschi nella compagnia e allo stesso tempo il veicolo voleva evitare a tutti i costi il rischio di un’eccessiva diluizione nel capitale di Telecom Italia. Così tutti i tentativi di Bernabè di portare un nuovo partner industriale, da Naguib Sawiris fino a China Telecom, carta giocata poco più di una settimana fa, sono stati respinti. Il divorzio era dunque solo questione di tempo. Anche perché quei risultati che invece Telco voleva, sul fronte operativo, tardavano ad arrivare. Al di là dell’andamento deludente del titolo, il calo della redditività ha messo a dura prova l’equilibrio finanziario della cassaforte partecipata da Telefonica, Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo, esposta per ben 2,8 miliardi. Basti pensare che nel 2008 il veicolo riuscì a mettere in portafoglio un dividendo Telecom, a valere sul bilancio 2007, di 8 centesimi ad azione mentre quest’anno la cedola è stata di 2 centesimi a titolo, un quarto rispetto a sei anni fa. E per distribuirla, tra l’altro, si è dovuto attingere alle riserve, con l’esito che il patrimonio è passato dai 27 miliardi del 2007 agli attuali 23 miliardi.
Ma, d’altra parte, Bernabé non poteva fare altrimenti. Tra il 2011 e il primo semestre 2013 Telecom ha dovuto svalutare pesantemente gli avviamenti (14 miliardi in tutto) una manovra che ha spinto in rosso i conti degli ultimi due esercizi. Senza quella mossa, almeno sul piano operativo, i risultati di Telecom avrebbero retto. Forti anche del fatto che l’epoca Bernabè ha portato a un taglio del debito di quasi 8 miliardi. E questo senza aver fatto ricorso a cessioni (il miliardo incassato è stato di fatto reinvestito in Sud America) ma solo grazie all’efficientamento dei costi, più o meno 5 miliardi. Questo ha spinto il debito netto da 35,7 miliardi a 28,2 miliardi a fine 2012 (28,8 miliardi nel semestre), nonostante 25 miliardi di investimenti. Certo, i ricavi di Telecom sono scesi, da 31,2 miliardi a 28,5 miliardi, e l’ebitda di Telecom del 2012 è esattamente pari a quello del 2007 ma visto il tasso di concorrenza del settore è difficile dimostrare che si sarebbe potuto fare meglio. Considerato che, in ogni caso, la marginalità di Telecom seppure lontana dal 50% di dieci anni fa viaggia comunque attorno al 40% contro il 34% di Telefonica. Tutto ciò non è bastato ai soci Telco, poiché serviva appena a poter onorare con serenità il debito della cassaforte.