Federica Bianchi, L’Espresso 4/10/2013, 4 ottobre 2013
È TORNATO IL TIMONIERE
Con la sua confessione televisiva Xue Manzi, una celebrità del Web, ha spalancato le porte allo spettro di Mao Zedong. La barba bianca sotto un sorriso spento, l’investitore finanziario con la passione per la politica e oltre 12 milioni di seguaci su Weibo, il Twitter cinese, confessava - mentre scorrevano le immagini della sua recente prigionia - di avere diffuso pettegolezzi irresponsabili e di avere capito che la libertà di espressione deve piegarsi alla legge dello Stato. Come Xue, decine di "Grandi V", quegli utenti di Weibo regolarmente verificati che hanno milioni di seguaci, sono nel mirino del nuovo regime, deciso a eliminare chiunque abbia la capacità di avere un’influenza sul popolo alternativa alla propria.
La gogna pubblica è soltanto uno degli strumenti di controllo del popolo e di consolidamento del potere forgiati da Mao Zedong e riesumati, seppur adattandoli ai tempi moderni, da Xi Jinping, che dopo solo sei mesi, è già considerato il leader più potente e spietato dai tempi del fondatore della Repubblica popolare. «Xi ha vinto su rivali, colleghi e perfino mentori», spiega François Godement, esperto di Cina e professore a Science Po: «Il suo stile segnala un ritorno al potere personale, con la conseguente sconfitta del controllo collettivo promosso da Hu e Wen, e la riaffermazione della supremazia del Partito rispetto a qualsiasi tentativo di instaurare un’effettiva separazione dei poteri».
Il primo segnale della forza di Xi era stata la sua nomina a capo delle Forze armate assieme a quella di presidente: c’erano voluti anni perché Hu, il suo predecessore, strappasse il titolo a Jiang Zemin. Sono seguiti gesti ad alto valore simbolico come la visita alla villa sul lago di Wuhan, dove Mao trascorreva le estati durante le purghe, preceduta da una dichiarazione emblematica rilasciata da Xi nel villaggio da cui nel 1949 partì l’attacco a Pechino: «La nostra nazione rossa non cambierà mai colore».
Con l’intento di solidificare velocemente il suo potere, a fine primavera Xi, che ama citare a memoria le poesie scritte da Mao tra il 1943 e il 1949, ha lanciato due campagne cruciali in puro stile maoista. La prima, quella chiamata della "linea delle masse", invita i burocrati di partito ad ascoltare i bisogni delle masse e a limare gli eccessi dei propri comportamenti. Come già aveva fatto a suo tempo Mao nel 1958 per migliorare il morale delle truppe, Xi ha addirittura costretto i generali dell’esercito a servire per due settimane come soldati semplici per capire meglio i bisogni dei sottoposti. La seconda campagna, quella per la "rettificazione" del partito comunista, nasce invece sulla scia del processo al carismatico Bo Xilai, l’ex nastro nascente della politica che a Chongqing aveva dato vita a un revival dei modi e dei temi maoisti per consolidare il suo potere. In un primo tempo la campagna era stata vista con entusiasmo da liberali e progressisti che consideravano Xi una sorta di "anti-Bo", l’uomo che avrebbe tacitato una volta per sempre l’ala conservatrice del Partito. Un giudizio affrettato. Xi con Bo non condivide solo l’imponente statura fisica e il carisma, ma anche la storia personale. Entrambi sono dei "principini dell’élite", figli di eroi maoisti, depurati da Mao durante la rivoluzione culturale, e poi riabilitati. Entrambi sono stati rieducati nelle campagne durante gli anni in cui avrebbero dovuto frequentare il liceo. Entrambi hanno assorbito velocemente meccanismi e trame del Partito. Entrambi hanno imparato a navigarne in acque tempestose per emergere. Bo è poi stato tradito dal suo braccio destro, Wang Lijun, finendo condannato all’ergastolo come la moglie omicida anziché seduto tra gli echelon del Politburo. Xi ha sfruttato la sfortuna del rivale per trasformare una potenziale crisi politica in un’eccitante spot pubblicitario in favore di quella campagna di "rettificazione" con cui sta eliminando i suoi avversari. Dopo avere riesumato la lotta lanciata da Mao nel 1952 contro le "tigri" corrotte che minano la legittimità del Partito, Xi è riuscito a coniugare la lotta alla corruzione endemica voluta da un popolo sempre più insofferente ai privilegi eccessivi delle élite con la sua agenda di potere.
Non passa giorno senza che la stampa annunci nuove indagini su membri del partito. Ed è la scelta degli uomini colpiti a dare il senso degli eventi. Oltre che su Bo, ex rivale numero uno, la scure di Xi si è abbattuta anche su Jiang Jemin, l’ex potente ministro addetto alla supervisione delle imprese di Stato, spina dorsale del sistema economico cinese, e sul suo mentore e grande alleato di Bo, Zhou Yongkang, fino all’anno scorso il grande boss del temuto sistema di sicurezza interna. Come Mao, anche Xi intende avere il controllo diretto sia della repressione interna sia del sistema economico cinese. In altre parole, il potere assoluto. Lo scorso anno, a fine agosto, quando ancora la futura leadership del partito era incerta, pare abbia detto in un momento di frustrazione: «La mia casa di famiglia fu occupata da sconosciuti. Adesso me ne vogliono affittare alcune stanze. Ma io la rivoglio indietro tutta».
Il consolidamento del potere personale di Xi si traduce però nella definitiva evaporazione di ogni speranza di riforma nel prossimo decennio, prima fra tutti l’assoggettamento del Partito alla legge. Se all’inizio della primavera il presidente si era arrogato il diritto di scegliere «cosa cambiare e cosa non cambiare» perché «ci sono cose che non abbiamo cambiato, cose che non possiamo cambiare e cose che non cambieranno mai», a fine primavera ha fatto circolare un documento, il numero Nove, che spiega bene la sua filosofia politica. Vi sono elencati i sette pericoli immediati che minacciano il monopolio del Partito e che vanno combattuti senza sosta: innanzitutto la diffusione del concetto di democrazia costituzionale; poi i valori universali dei diritti umani; quindi l’indipendenza dei media e la partecipazione alla politica della società civile; infine devono essere perseguitati l’elogio del neoliberismo economico, la critica al passato maoista e perfino quella alla ricchezza delle élite.
Dalla teoria Xi è passato alla pratica. Durante l’estate ha proibito alle scuole di affrontare questi sette argomenti incoraggiandole invece a rendere obbligatoria la pratica delle arti marziali, ritenuta molto più "cinese" dei popolari sport occidentali come il calcio e la pallacanestro, amatissimi dai più giovani. Inoltre, tra lo sgomento generale, ha ordinato a tutti i 307 mila giornalisti cinesi di frequentare per almeno due giorni alcune sessioni di teoria marxista organizzate dal Dipartimento della Propaganda per rafforzare l’unità ideologica della nazione. Contestualmente ha dato un ulteriore giro di vite al dissenso - un concetto in via di estinzione - facendo arrestare decine di attivisti, tra cui l’avvocato Xu Zhiyong e il venture capitalist Wang Gongquan, entrambi figure prominenti del Nuovo movimento cittadino, un’associazione di impiegati e professionisti delle grandi città che chiedono una maggiore tutela della libertà di espressione e di altri diritti personali elencati nella Costituzione. Gongquan, fondatore di un’impresa miliardaria, era noto non solo per il suo successo economico ma soprattutto per le sue poesie e i commenti arguti sulla società cinese postati su Weibo. Aveva confessato agli amici, da cui era ritenuto un moderato, di non sentirsi in pericolo d’arresto dal momento che non ha mai fatto nulla di male. Ma aveva sottovalutato l’ampiezza della repressione in corso per cui chiunque rappresenti la coscienza critica finisce nel mirino di un leader che vuole riportare il Paese all’epoca del Pensiero Unico. Secondo Human Rights Watch le autorità hanno detenuto 55 persone da quando Xi ha preso il potere in marzo, un’ondata di arresti che non si vedeva da due anni, quando il governo fu intimorito dalle ripercussioni locali della "Primavera araba".
Consapevole che gran parte del dialogo civile oggi si svolge online, il regime di Xi sta investendo anche nella censura di Internet. A settembre la Corte suprema ha emanato una nuova interpretazione della legge secondo cui chiunque pubblichi online un contenuto in qualche modo "diffamatorio" che sia letto da almeno 5 mila persone o ripostato almeno 500 volte (ci vogliono pochi minuti in un Paese con oltre 500 milioni di internauti) potrà essere spedito in carcere per almeno tre anni. A farne le spese saranno principalmente la piattaforma Weibo di Sina e la diffusissima applicazione di istant messaging "Wechat" di Tencent, la maggiore società Internet asiatica. La nuova direttiva arriva subito dopo che Wu Dong, un blogger popolare e accorto, aveva postato foto di un burocrate di medio livello che indossava una serie di orologi costosi che non si sarebbe mai potuto permettere col suo salario. L’uomo è stato sì condannato a 14 anni di prigione ma, vietando in futuro la diffusione della critica, il regime ha voluto prevenire denunce "non gradite" di esponenti politici più in vista.
A fare le spese di questo nuovo clima di repressione è soprattutto l’economia, ritenuta dal professor Godement «il vero tallone d’Achille" di Xi. Atteggiamenti tanto conservatori male si sposano con l’attesa liberalizzazione a cui stava lavorando Li Keqiang, il primo ministro riformatore voluto da Hu a cui Xi ha soffiato il ruolo di presidente. La cartina di tornasole sarà la riunione di partito del prossimo novembre quando Xi dovrà esprimersi sulla linea economica. È difficile che quelle riforme economiche di cui ha bisogno il Paese - tra cui la liberalizzazione delle aziende statali - possano essere portate avanti contro gli interessi dei big del partito legati alle potenti aziende di Stato.
Eppure, nonostante questi terribili sei mesi, c’è ancora chi spera che l’adozione del repertorio maoista sia un espediente di Xi per concentrare il potere nelle sue mani in preparazione di un’ondata di riforme radicali. E che alla fine, come il padre, convertitosi al liberalismo negli ultimi anni di vita, anche Xi potrà riservare sorprese ai suoi cittadini.