Luca Piana, L’Espresso 4/10/2013, 4 ottobre 2013
NON C’È CASSA CHE TENGA
Alitalia e i suoi aerei, i treni della Breda, le turbine dell’Ansaldo, gli immobili del Comune di Roma, Telecom Italia e la rete telefonica nazionale... In questi giorni, di fronte ai molti pezzi dell’economia nazionale messi in vendita o prossimi al collasso, non c’è politico, amministratore pubblico o manager in bilico che non abbia invocato aiuto. Deve intervenire la Cassa Depositi e Prestiti o andiamo tutti a rotoli, è l’appello che si sente ripetere in ogni discussione. Un ritornello che, tuttavia, non ha spinto coloro che siedono al vertice del colosso pubblico, controllato dal ministero dell’Economia con una quota dell’80,1 per cento, ad annunciare interventi miracolistici. Perché la Cassa, è stato il messaggio per chiunque bussasse alla sua porta, ha una strategia precisa. Può fare molto. Ma le aziende decotte, prive di alcuna chance di recuperare una valenza strategica, non può salvarle.
Basta la cronaca degli ultimi giorni del governo di Enrico Letta per comprendere il livello delle pressioni a cui la Cassa, presieduta da Franco Bassanini e guidata dall’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini, è stata sottoposta. Renato Brunetta, Pdl, ha chiesto 2 miliardi per acquistare dallo Stato immobili e aziende pubbliche e tagliare una tantum le tasse. Più dettagliato Stefano Fassina, Pd, secondo il quale la Cassa dovrebbe farsi carico del trio di imprese messe in vendita dal gruppo Finmeccanica: Ansaldo Energia, Breda e Ansaldo Sts, società quotata che produce sistemi di segnalamento per le ferrovie. «La Cdp deve lanciare un salvagente all’Alitalia», ha invocato invece il leader della Uil, Luigi Angeletti.
La linea tenuta dai vertici della Cassa blocca però molte richieste. Un salvataggio dell’Alitalia fa parte del libro dei sogni perché non possono essere rischiati in un’azienda strutturalmente in perdita i quattrini dei buoni fruttiferi e dei libretti postali, che la Cassa raccoglie dai risparmiatori per gestirli. Un’operazione di questo genere, le cui speranze di successo sono ridotte al lumicino, viene respinta al mittente. Difficile immaginare di intervenire per i treni Breda, a meno che il numero uno di Finmeccanica, Alessandro Pansa, non riesca a separare le attività sane da quelle deficitarie, varando la bad company ipotizzata mesi fa. Più disponibilità, invece, a intervenire per le due Ansaldo, Energia e Sts, finite nel mirino, rispettivamente, della coreana Doosan e dell’americana General Electric.
Per la prima, controllata da Finmeccanica e partecipata dal fondo statunitense First Reserve, sei mesi fa Gorno Tempini aveva già avanzato una proposta per rilevare una quota del 30 per cento, in cordata con altri imprenditori italiana. Non se ne fece nulla ma il dossier è stato riaperto e ora l’ingresso della Cassa al fianco di Doosan sembra vicino.
Come dimostra il caso Telecom, però, la società pubblica può funzionare come un’ambulanza solo se qualcuno è davvero intenzionato a chiamarla. I contatti fra il vertice del gruppo telefonico e Gorno Tempini, infatti, sono andati avanti per più di un anno. Si racconta che nelle speranze del presidente uscente di Telecom, Franco Bernabè, ci fosse dapprima un’iniezione di capitali che la Cassa avrebbe dovuto effettuare senza pretendere alcun cambiamento nella struttura di governo della compagnia. L’attenzione si è poi spostata sullo scorporo della rete fissa, un’opzione gradita alla Cassa, che ha già investito nella rete in fibra ottica Metroweb. Tuttavia Telecom non ha mai presentato un progetto, su cui la Cassa potesse garantire un impegno preliminare. Se è facile intuire che i veti interni abbiano frenato Telecom, più difficile da digerire è il fatto che, in tutto questo tempo, non ci sia stato un governo sufficientemente credibile da costringere gli azionisti ad agire. Risultato: ora toccherà trattare con la spagnola Telefonica, da sempre ostile al progetto. E tempi saranno per forza lunghi.