Denise Pardo, L’Espresso 4/10/2013, 4 ottobre 2013
IL SALTO DEL QUAGLIARIELLO
Da Marco Pannella a Giorgio Napolitano, il salto è notevole per non parlare dell’altezza del rango raggiunto. Sarà forse quest’ultima vetta, l’ombra benevola e intoccabile del Colle più alto, ad aver fatto la differenza. E ad aver dato l’ardire a Gaetano Quagliariello, uomo che ardito non è, professore berlusconiano così abile da aver quasi smacchiato le tracce del berlusconismo, di fare i primi voli per quella che sarà la sua nuova terza o quarta via, in certe storie si finisce per perdere il conto. Ministro per le Riforme costituzionali, in tasca le dimissioni, secondo i diktat del Cavaliere in crisi di governo, servizi sociali e incandidabilità, ma anche la dissidenza, Quagliariello, incoronato saggio il 30 marzo dal Capo dello Stato nella ristretta Commissione per le Riforme, un mese prima di conquistarsi un dicastero del governo Letta di larghe intese, l’ha detta grossa per i suoi parametri classici. Ha paragonato Forza Italia in mano agli odiati falchi a una possibile riedizione dell’estremista Lotta Continua del centro destra («se così sarà mi dedicherò a creare il Napoli Club Salario»). Ora, è vero che in politica tout casse, tout lasse come dicono i francesi di cui è devoto e studioso, ma certo è stato il segno che da colomba acclarata è pronta a librarsi verso altri lidi. Stavolta un volo più nobile rispetto a quelli che nel Palazzo venivano chiamati con l’affetto fraterno tipico dell’ambientino i salti del Quagliariello.
Aspetto crepuscolare e ragionevole e quindi capace di esplosioni di fanatismo, l’aria di un gran borghese della Magna Grecia, formazione e sarto, curriculum e scarpe, nato 53 anni fa a Napoli come il presidente, cresciuto e laureato a Bari, famiglia d’origine usa al potere, un padre rettore e presidente del Cnr, nonni zii e vari parenti notabili democristiani, Quagliariello è uomo senza truppe e senza scheletri. Solo qualche cadavere politico qua e là. Barone della Luiss, l’università di Confindustria, cattedra di Storia dei partiti politici, carriera accademica avviata come assistente del famoso professore Paolo Ungari che era ufficialmente Maestro Venerabile del Grande Oriente d’Italia, è ormai da un pezzo più organico al cortile di Palazzo Chigi che alla corte di Palazzo Grazioli. «Sono un liberale, un moderato», andava ripetendo di larga intesa in larga intesa, allontanando sempre più gli anni in cui faceva notte nell’anticamera dell’ufficio di Denis Verdini, con cui da tempo a malapena parla. Un rapporto accantonato da quando l’accesso al Cavaliere non ha avuto più bisogno di intermediari pur potenti pur amichevoli.
Gli va dato atto che è stato forse il primo a segnalare un filo di mal di pancia nei confronti della deriva ultrà del Pdl priva di affinità per lui, alfiere di un liberalismo da democrazia avanzata, che ama definirsi più un fine intellettuale che un politico puro e che se ai convegni non gli vengono riservati almeno quaranta minuti per quei tre quattro concetti che deve esprimere scatena tuoni e fulmini. Le sue biografie grondano elenchi di pubblicazioni, titoli, ponderose analisi storiche oltre che una notevole esibizione di opere su Charles de Gaulle e sul gollismo, persino tradotte da case editrici parigine. È il suo cavallo di battaglia preferito, il significativo indizio del suo percorso politico alla ricerca del generale Charles perduto, la speranza, evidentemente, di diventare prima o poi anche lui, Gaetano, un Georges Pompidou.
In gioventù, ad attirarlo è il partito Repubblicano ma è l’innamoramento di un momento. Poi ecco, l’abbraccio totale al Partito radicale sotto la fascinazione irresistibile del Marco Pannella dei tempi migliori. Le piazze e le manifestazioni, perfino l’arresto per qualche ora, insieme a Francesco Rutelli anche lui vice segretario nazionale: qualcosa di impensabile da immaginare vedendolo oggi, il doppiopetto gessato da circolo Italia di Napoli, l’eloquio consapevole da aula, universitaria e parlamentare. E invece Quagliariello era uno da prima linea, anti clericale spinto, pronto a battersi per la liberalizzazione delle droghe e per il diritto all’aborto. Proprio lui che più di vent’anni dopo da ideologo della caotica corrente dei teo-con, composta da Magdi Allam, Giuliano Ferrara, Eugenia Roccella, Maurizio Sacconi, in quello che viene definito "scontro di civiltà"su temi etici, combatterà con violenza sorprendente la battaglia per la vita di Eluana Englaro. Il viso è deformato mentre urla «È stata ammazzata» e intende il Colle perché il capo dello Stato non si era speso, secondo lui, per il decreto legge. Al contrario, è gelido quando al tempo della crocifissione del "traditore" Gianfranco Fini sibila :«Non conta che la pensi come noi al 95 per cento, conta il 5 che rimane scoperto». È diventato un ateo devoto oltre che un berlusconiano assai flambé.
Tecniche che quagliano negli anni. Specialmente con Marcello Pera «la svolta della vita, prima di lui ero un tranquillo professore». Oddio proprio tranquillo forse no, piuttosto in attesa dell’occasione giusta. Fatto sta, prima diventa il suo consigliere culturale, poi fondano insieme Magna Carta, il think tank dove il simpatico corsivo "L’uovo di giornata" cattivissime invettive contro i nemici della Causa del cavaliere, secondo molti sono frutto della sua ispirazione. Il suo mentore è Pera, al tempo mandarino di fulgido potere, futuro presidente del Senato, papabile persino, si ipotizzava allora, per il Quirinale. Quagliariello diventa un Pera à-penser, il capo della sua pugnace milizia, non lo molla un attimo e, grazie ai suoi auspici, ammette sincero nella sua biografia, nel 2006 guadagna il primo seggio al Senato. La scalata è misurata ma inesorabile avvolta in una nuvola di zucchero filato culturale d’alto bordo. Quagliariello istruisce, spiega, insegna: «Non siamo nella Seconda Repubblica, ma al secondo tempo della Prima. Siamo come la Francia alle soglie della Quinta».
I professori si attraggono l’un l’altro, si sa. Dopo Pera, stella cadente abbandonata piano piano, diventa il deus ex machina di Magna Carta. Ma poi arriva il tempo del seduttore tecnico Mario Monti, neo salvatore della patria che oltrepassa anche i confini della suddetta. È un flirt non vera adorazione, dura più o meno un mesetto, il tempo di capire che il Cavaliere sta per mettere in scena l’ennesima resurrezione. E parte la ritirata. Un farfallone politico, lo accusano in quei giorni i falchi Pdl. Ma il giro o meglio la giravolta montiana lo avvicina al Colle. Lui è preparato, studioso, ma sa anche essere piacione e mostrare un inaspettato senso dell’umorismo, Napoli docet e chi se lo può dimenticare.
Nel pantheon di Quagliariello, il via vai è da Grand hotel. Le porte girevoli accompagnano l’entrata e l’uscita prima di Sandro Bondi, poi quella di Denis Verdini, l’uomo forte della macchina Pdl, creatore di un codice che sostituisce il manuale Cencelli. Diventerà il suo antagonista insieme a Raffaele Fitto che non apprezza affatto le incursioni nella sua terra di Puglia. Poco male, da vice capo gruppo vive in simbiosi con Maurizio Gasparri, Italo Bocchino, il Cavaliere lo apprezza e lui si è trasformato in un berlusconiano Magno. Ma alla Gianni Letta. La sua second life da professore gli porta finalmente in dote l’evangelizzazione dell’istituzionalità, la nomina quirinalizia che lo consacra saggio seguita dalla poltrona da ministro. Istituzionalmente testato può permettersi di ringhiare protettivo verso il Cavaliere «che la giunta per le elezioni non sia un plotone d’esecuzione». Poche settimane prima di essere firmatario del documento dei senatori che costituiscono il gruppo autonomo pronto a sostenere il governo Letta. «Il potere non si prende», diceva il generale de Gaulle, «si raccatta». Quagliariello, fine gollistologo, lo sa bene.