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 2013  ottobre 04 Venerdì calendario

IL CAMPIONATO DEL GOLFO

«A Dio piacendo, di Obama faremo un musulmano », sorrise sardonico re Abdallah. Era il 7 novembre 2008 e il vecchio monarca saudita stava confidando agli intimi il tono della telefonata appena ricevuta dal neoeletto presidente americano. Affabile scambio, concluso da Barack Hussein Obama con tipica locuzione arabo-musulmana — “ inshallah”, a Dio piacendo, non così ovvia nella bocca del leader della massima potenza cristiana.
Quasi cinque anni dopo, il rieletto Obama scandisce in televisione la vera ragione della sua refrattarietà a impelagarsi nella guerra di Siria: «Gli Stati Uniti non si ficcheranno nel mezzo di una guerra civile altrui. Noi non metteremo soldati sul terreno siriano. Questa non è la guerra fredda. Se la Russia vuole avere una certa influenza nella Siria del dopoasad, ciò non danneggia i nostri interessi».
Poi, il 27 settembre, Obama chiama al telefono Hassan Rouhani, presidente della Repubblica Islamica d’Iran, l’arcirivale dei sauditi. Lo saluta in farsi –“khodahafez”, che Dio vi guardi. Un tic? Poi comunica al mondo: «Credo che possiamo raggiungere un accordo complessivo ». Americani e iraniani, alleati di ferro ai tempi dello scià, riaprono così, per lo sconforto di Abdallah – e del premier israeliano Netanyahu – una conversazione interrotta dal 1979.
Tre fotogrammi. Ma sufficienti a rendere il senso del divorzio che si sta consumando fra Stati Uniti e Arabia Saudita. E che potrebbe rivelarsi l’esito meno provvisorio e più profondo del sisma geopolitico che scuote l’ecumene musulmana e di qui il resto del mondo. Crepuscolo della lunga era inaugurata dal matrimonio d’interessi – greggio arabo-saudita per protezione strategica americana – celebrato il 14 febbraio 1945 in Egitto tra Franklin Delano Roosevelt e Abdul Aziz al-Saud, fondatore del regno eponimo, a bordo dell’incrociatore Quincy, alla fonda nel Grande Lago Salato. Quel patto è stato l’alfa e l’omega degli equilibri nel Golfo, per riflettere la sua ombra lunga sul Grande Medio Oriente, dall’Afghanistan al Marocco e oltre. Ha resistito alle guerre arabo-israeliane e allo shock petrolifero del 1973 e financo al trauma dell’11 settembre 2001, quando diciannove terroristi, di cui quindici sauditi, ispirati da un ex intimo di casa reale, si scagliarono contro i simboli dell’impero a stelle e strisce.
L’intesa americano-saudita ha permesso di disegnare il triangolo strategico Washington- Gerusalemme-Riyad, declinazione dei due interessi vitali che hanno incardinato gli Stati Uniti in Medio Oriente dopo la guerra fredda: Israele e petrolio. Senza il perno saudita nel Golfo, anche il ben più radicato asse israelo-statunitense, apparentemente inossidabile, minaccia di girare a vuoto. Né si tratta solo, come recita la vulgata, del crescente disimpegno energetico degli Stati Uniti dai pozzi mediorientali, frutto dell’inebriante effetto degli idrocarburi non convenzionali oggi disponibili nel cortile di casa nordamericano. E nemmeno del contenimento della Cina battezzato pivot to Asia, tuttora vago. A incrinare quella storica intesa sta soprattutto contribuendo lo tsunami che da tre anni agita lo spazio del Mediterraneo allargato.
Il dietrofront americano sulla Siria sigilla l’abdicazione dell’America al rango di arbitro del Medio Oriente e illanguidisce alquanto la sua residua influenza planetaria. Gli interessi globali di Washington ne eccedono di molto la potenza. Non riuscendo a incrementare la seconda, e trovando crescenti resistenze all’uso di risorse altrui per fini propri, deve ridurre i primi. Crisi di egemonia confermata dall’incapacità di mettere insieme l’ennesima coalizione dei volenterosi che avrebbe dovuto punire al-Asad per la strage chimica di Damasco del 21 agosto, a lui attribuita da Washington e non troppi associati.
La partita avviata nell’Africa mediterranea si decide dunque tra Levante e Golfo. Il duello decisivo è fra Arabia Saudita e Iran, con i rispettivi satelliti. Lo scambio estivo di segreti messaggi tra Rouhani e Obama, culminato nella telefonata del 27 settembre, rimette Teheran al centro della partita geopolitica mediorientale. Giocata da regimi contestati, fatiscenti, perciò pronti a scatenare l’inferno pur di guadagnarsi qualche altro anno di vita. Nel campionato mondiale del Golfo la finale deve ancora cominciare.