Romina Marceca, la Repubblica 4/10/2013, 4 ottobre 2013
KEBRAT, DATA PER MORTA E STESA TRA LE SALME “COSÌ SI SONO ACCORTI CHE RESPIRAVO ANCORA”
PALERMO — L’avevano ripescata nelle acque blu dell’Isola dei Conigli e per loro era ormai morta. Kebrat, invece, ha aperto gli occhi all’improvviso sulla banchina del porto di Lampedusa, quando già l’ultimo soccorritore aveva decretato che non c’era più nulla da fare per lei e aveva adagiato il suo corpo accanto ai cadaveri dei suoi compagni di viaggio. E invece lei ha vomitato acqua e nafta, ha annaspato col respiro, ha pianto e ha gridato «help». Fino a quando l’hanno sentita e si sono accorti che era ancora viva.
A qualcuno tra i soccorritori, questa ragazza eritrea di 24 anni, era apparsa incinta: come se in quella vita improvvisamente ritrovata se ne celasse un’altra. Solo quando in ospedale, a Palermo, dove è arrivata trasportata dall’elisoccorso le è stata fatta una ecografia si è scoperto che Kebrat non aspetta un bambino. Stesa sulla barella che viene spinta di corsa verso la rianimazione Kebrat ripete con le lacrime agli occhi: «Ok, ok» e mostra da sotto il lenzuolo la mano sinistra con il pollice in su. Trema e i medici non la lasciano un attimo da sola. La confortano. Non è per niente tutto a posto. La prognosi è riservata per le gravi lesioni chimiche ai polmoni. Prima di entrare nel reparto di rianimazione, Kebrat riesce a rispondere ad alcune domande da dietro la mascherina
dell’ossigeno con il suo inglese stentato.
Dove l’hanno trovata i soccorritori?
«In the land, sulla terra. C’erano altri corpi accanto a me. Non ricordo cosa è successo prima. Eravamo in acqua, era notte, ma non riesco a spiegarmi cosa è accaduto. C’erano le fiamme e poi niente, il buio».
Ha un marito?
«No, non c’è. Sono sola, sola».
I soccorritori l’avevano data per morta.
«Sono felice, sono viva e sono arrivata in Italia dopo anni di disperazione».
Quanti giorni è durato il viaggio?
«Tre giorni, forse, ma ricordo che siamo rimasti in mare per molto tempo. Tanto. C’è chi ha bevuto anche l’acqua del mare perché eravamo sotto il sole, avevamo sete. Quando sono finita in acqua ho nuotato con tutte le mie forze. Accanto a me ho visto morire tanta gente, e poi ricordo poco. Le urla, quelle sì, le ricordo. Non c’è altro, poi sono svenuta».
È caduta in mare con gli altri o si è tuffata?
«È successo tutto all’improvviso. Le fiamme stavano distruggendo la barca, avevo paura. Abbiamo iniziato a gridare e ci siamo lanciati in acqua per sfuggire alla morte. Ma alcuni si sono bruciati. C’erano molti bambini e anche qualcuno di loro si è bruciato».
Come si sente adesso?
«Sto meglio, spero di farcela. Ho paura perché ho creduto di morire. Grazie a tutti quelli che mi hanno soccorso».
Da cosa scappa, perché ha scelto di venire in Italia?
«Scappo dalla devastazione lasciata dalla guerra. Cerco in Italia una vita migliore. Cerco un lavoro. Ho vissuto per anni nella paura.
Tutti cerchiamo il futuro in un mondo senza guerra, dove c’è pace. Sono fuggita dalla mia terra per questo, anche se ho lasciato la mia famiglia».
I medici non possono più attendere, per Kebrat si aprono le porte della rianimazione. Il respiro è sempre più affannoso, i sanitari temono per la sua vita. Kebrat, capelli ricci screziati di rosso, indossa solo un reggiseno sul quale sono scritti dei numeri di telefono, probabilmente sono quelli dei suoi familiari rimasti in Eritrea. Un’infermiera non ha voluto che quella ragazza rimanesse nuda sotto la coperta termica in cui l’avevano avvolta i soccorritori. Ha preso dal suo armadietto una maglietta bianca con il logo dell’ospedale. L’ha tagliata e l’ha sistemata su Kebrat. «Prendila tu, a me non serve». Kebrat ha guardato l’infermiera col camice celeste e ha accennato un sorriso, poi ha cominciato a piangere.