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 2013  ottobre 04 Venerdì calendario

COSÌ LE SUE FORBICI RESERO SEDUCENTE IL TESSUTO DEL «MIRACOLO ECONOMICO»


Negli oramai leggendari «anni 60», Milano poteva permettersi il lusso di mandare un grande scrittore ad assistere a una sfilata di moda. Scrive infatti Dino Buzzati nel «reportage» sul Corriere della Sera del luglio 1963 in occasione di una presentazione di modelli di Jole Veneziani: «Ho contato personalmente 38 chiamate e un minuto e mezzo di applausi, ininterrotto, al gran finale. Mi hanno detto che neppure a Parigi si era mai vista una parata così spettacolosa di pellicce, rare e rarissime, trattate con tanta sapienza. È stato un piccolo festival del "miracolo economico", tanto dichiarato e spiritoso da non poter "dare scandalo"». E infine lei: «la Jole». Come allora si usava chiamare anche «la Wally» (Toscanini), «la Maria» (Callas), «la Mimi» (Piovene), «la Paola» (Borboni).
La «Jole»: nel senso del ripudiato originario Jolanda, nata a Taranto da una borghese pugliese e un avvocato triestino e di età imprecisata, trasferita a Milano ancora bambina, privilegiata nei primi dodici anni e all’improvviso costretta a diventare contabile in una ditta di pellicceria. Bruna, bionda, castana, bianchissima. Piccolina, tondetta, sorridente, imperiosa. La erre lievemente arrotata, la risata argentina. Il vocabolario di un tempo oramai sepolto sotto le uova lanciate contro le pellicce delle signore alla Scala: atelier, garçonne, broche, tè danzanti, chic. Assistenti e aiutanti quasi per intero scelti fra donne. Adoranti. «Sono la mia famiglia», affermava. Dove il capo indiscusso era lei, fuori di dubbio. E chi altro, del resto. Non le teneva testa nessuno. «Zampa di velluto», la chiamavano colleghe e colleghi.
Si presentava così: occhiali di sua invenzione, scintillanti, estrosi, voluminosi. Un immenso scialle di seta con frange fermato alla spalla da una broche altrettanto preziosa: «la mia tunica, il mio mantello, il mio grembiule da lavoro». E per strada? «Ho le mie adorate pellicce».
Era stato catalogandole per la ditta che amministrava, che si era innamorata delle pellicce: «morbide, avvolgenti, femminilissime». E poco dopo, triplo salto mortale. Milano è sotto le bombe: dalla Scala a Brera, uno spaventoso baratro; frantumate le periferie intorno alle stazioni ferroviarie; sbriciolata la scuola elementare di Gorla con duecento fra bambini e docenti. Pane e latte razionati. Dopo l’aggressione fascista a Bologna, Toscanini costretto a emigrare in America. E poi gli arresti delle Brigate Nere e delle SS. Le torture all’albergo Regina e nel cinema di via Rovello. E invece la Jole, sovranamente distante da ogni dolore e miseria: «Apro un laboratorio in una casa sfollata e crollante di via Nirone. Con enorme difficoltà mi procuro le pelli. Mentre i muratori appendono al soffitto i lampadari ondeggianti sotto un bombardamento, sento che dicono: "l’è una matta". La crisi? C’era. Ma io sono una donna testarda. Non aspetto mai "dopo"».
E infatti dopo, tutta una strada in ascesa. Non sa tenere un ago in mano. Guidate dalla mano spericolata, le sue forbici sono invece audacissime. Taglia le pelli, le ricama, le rovescia come se fossero una tela, un cotone. Le colora come fazzolettini di seta. Le tira e le stira come una pelle d’uovo, una garza. Stanca di sentire le sue clienti domandarle «E adesso, con che vestito metto la mia meravigliosa pelliccia?», comincia a disegnare modelli da abbinare alle sue creazioni. E poi scarpe, borsette, persino le calze. Legata alla musica e al teatro grazie al fratello Carlo, noto commediografo uomo di mondo, veste gli artisti sulla scena e nella vita. Per Anna Proclemer, che interpreterà «Simone e Laura» per la Tv, disegna un abito da sera in «cloquette» organzato con ricami in perle e un leggerissimo mantello «imperial cincillà». Per la «prima» di «Otto e mezzo» a New York, Fellini la incarica di vestire Sandra Milo: «La voleva tutta vestita di azzurro, fino alle calze e alle mutandine: gentile, zuccherina, burrosa». Centocinquanta lavoranti in un «atelier» nella parte alta di via Montenapoleone. Principesco. Moquette e velluti. Silenzio e profumi. Sulla lotta per farsi strada e invadere il mondo, mai una parola. Soltanto successi. Nel 1950, la «Casa di riposo per artisti» fondata da Verdi in piazza Buonarroti aveva bisogno di soldi. Si organizzò una sfilata alla Taverna dell’hotel Duomo. «Ho presentato 70 modelli ispirati a tutte le opere rappresentate alla Scala — raccontò la Veneziani —. Ogni modello era accompagnato al pianoforte da un brano musicale dell’opera alla quale mi ero riferita. Un trionfo. E addirittura ovazioni quando, sul "coro muto", è scesa in pedana Butterfly in kimono di raso beige foderato di velluto nero. La mattina dopo, molto presto, ricevetti una telefonata di Anna Bonomi: "Quella schifezza che hai fatto per Butterfly: la vorrei subito". La sera stessa, nel mio sfolgorante kimono, la grande finanziera si presentò alla cena organizzata per l’inaugurazione della Rinascente. Fu accolta con un applauso».