Cecilia Attanasio Ghezzi, Lettera43 4/10/2013, 4 ottobre 2013
CINA, LA DISCARICA DELL’OCCIDENTE
Per anni la Cina è stata l’immondezzaio del mondo. I rifiuti in fondo sono un business milionario: solo la plastica vale 5 miliardi di dollari. E Pechino ha sempre avuto fame di soldi. Il Dragone controlla infatti una larga porzione di mercato: basti pensare che in Cina arriva ogni anno il 70% dei 500 milioni di tonnellate di spazzatura elettronica e dei 12 milioni di tonnellate di plastica di cui l’Occidente si disfa.
Europa, Giappone, Hong Kong e, soprattutto, Stati Uniti spediscono qui i rifiuti: pagando, si liberano del peso di uno smaltimento corretto e in linea con i principi base della tutela ambientale.
Il business dell’immondizia ha così permesso a decine di migliaia di cinesi di arricchirsi diventando dei veri magnati dei rifiuti. Il tutto a discapito dell’ambiente. La storia degli straccivendoli milionari è stata addirittura raccontata da Yu Hua nel suo capolavoro Brother in cui il protagonista, Li Testapelata riesce a diventare l’arcimiliardario presidente con il potere di radere al suolo un’antica città per costruire la sua nuova Liuzhen, tutta centri commerciali, luci al neon e palazzi svettanti, e di concedersi pure un giretto nello spazio.
Ora però, la Cina ha deciso di fare chiarezza sul business dei rifiuti, aumentando i controlli, perché il degrado ambientale ha raggiunto un livello tale che il Paese non può più permettersi di smaltire pure l’immondizia dell’Occidente. La campagna di Pechino, battezzata «Green Fence» (recinto verde), dovrebbe aver già bloccato, secondo le prime stime, circa 800 mila tonnellate di rifiuti riciclabili da febbraio. E ha sospeso, grazie all’intervento delle autorità portuali, 247 licenze ad aziende che importavano rifiuti, causando un certo disordine nei porti.
La decisione del governo cinese di alzare gli standard di sicurezza sui rifiuti importati potrebbe anche essere un modo per invitare l’Occidente a riflettere sugli effettivi costi di smaltimento, sull’assenza di infrastrutture adeguate per il riciclo e la mancanza di una filiera corretta.
È stato lo stesso presidente dell’Associazione internazionale per i rifiuti solidi (Iswa) a evidenziare che i metodi di riciclo cinesi, spesso effettuati da piccole aziende o addirittura da famiglie non in grado di utilizzate tecnologie idonee, ha come effetto l’inquinamento di suolo e acqua, oltre a esporre i lavoratori a danni permanenti per la salute.
Nel Sud Est della Cina, infatti, ci sono interi villaggi impegnati a smaltire rifiuti, come quelli elettronici. Si tratta di aziende a conduzione familiare che riciclano rame e altri metalli dai computer, fondendo i prodotti senza curarsi dei veleni emessi.
Dopo 30 anni, però, con il «Green Fence», il Dragone ha deciso di invertire la rotta del business del riciclo, cercando di renderlo più pulito ed efficiente.
Per ora i controlli più rigorosi hanno rallentato le importazioni di rifiuti e fatto crescere i costi per la loro lavorazione. Ma è anche stato fermato il 40% della spazzatura non riciclabile e che avrebbe prodotto solo danni.
Per il resto è ancora difficile fare un bilancio dell’iniziativa: i controlli potrebbero anche solo significare che la Cina riesca a trovare un’altra soluzione per smaltire l’immondizia occidentale. Rivolgendosi a Paesi dove i controlli sono ancora bassi e i costi di smaltimento contenuti.