Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 4/10/2013, 4 ottobre 2013
SULLE COSTE LIBICHE ALTRI VENTIMILA PRONTI A PARTIRE
La scia dei morti di Lampedusa conduce fino al porto libico di Zuwarah, 102 chilometri a ovest di Tripoli, circa 60 dal confine con la Tunisia. Da qui, dal lungo frangiflutti e da due piccoli moli partono i barconi carichi di migranti. In questi giorni, nel retroterra desertico, stipati nei centri di detenzione, ci sono almeno 10-12 mila volti spaventati in attesa. Sono arrivati dalla Somalia, dall’Eritrea, oppure dal Ciad, dal Niger. In fuga dalle guerre. In fuga dalla fame. Secondo le stime degli osservatori internazionali altri 10 mila migranti sono imprigionati nei campi clandestini, sistematicamente malmenati se non torturati. Su queste spiagge bianche si affaccia il favoloso anfiteatro romano di Sabrata. Ma ora il mare, il vento e tutto ciò che si muove lungo la striscia che arriva fino alla dogana tunisina di Ras Jedir rispondono agli ordini di 5-10 mila uomini armati. Spezzoni di tribù berbere, milizie che hanno combattuto e rovesciato Gheddafi e, soprattutto, bande di criminali «professionisti», magari ex contrabbandieri di benzina, oggi convertiti a traffici più redditizi: droga, esseri umani. Si calcola che il giro d’affari tocchi i 3-4 miliardi di dollari all’anno, poco meno del 10% della ricchezza libica (56 miliardi di dollari) ancora galleggiante sul petrolio. Nella periferia fuori controllo, lontano dal debole governo di Tripoli, i trafficanti hanno messo in piedi un’organizzazione tanto crudele quanto efficiente. Una filiera capillare molto più pericolosa della dimensione quasi artigianale sperimentata sulle coste del porto tunisino di Zarzis, nella primavera-estate del 2011. I clan di Zuwarah non hanno fretta. Non hanno bisogno di fare il giro dei bar per convincere i giovani a saltare sui barconi. Gli uomini, le donne, i bambini che arrivano stremati sulla costa libica vengono facilmente catturati da questi sciacalli. Chi ha i soldi alla mano si può imbarcare. Ma serve l’equivalente di 1.500-2.000 euro: un’enormità per quei disperati. E allora via nei centri di detenzione, quelli legali o quelli improvvisati. In attesa che dal Paese d’origine qualcuno, un parente, un amico, mandi i soldi. Se sono sufficienti si tenta la traversata fino a Lampedusa con un peschereccio malandato. Altrimenti c’è il gommone con un motore da 40 cavalli che si ferma regolarmente dopo sole 30-40 miglia di navigazione. Ai profughi viene consegnato un telefono satellitare e un ordine: «Chiama quando sarete in panne. Gli italiani verranno a prendervi».