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 2013  ottobre 03 Giovedì calendario

TOGNAZZI “GLI AMICI MI DICEVANO: MA TU DI CHE CAMPERAI?”


Ugo Tognazzi, i tuoi amici dell’adolescenza dicono che hai fatto carriera con la forza della volontà: all’inizio andavi sul palcoscenico in un teatrino di periferia in pigiama a raccontare barzellette, ripetendo in continuazione: “Hanno Tognazzi sul palcoscenico devono ridere”. È vero?
Non è vero che andavo in scena in pigiama, era un vestito che mi ero fatto fare a righe e probabilmente assomigliava a un pigiama. Come originalità, invece delle scarpe portavo dei sandali. Vivevo a casa di mio zio che era sfollato, in un cassetto avevo trovato dei calzini a righe coloratissimi che mi piacevano molto, con le scarpe non si sarebbero visti, così indossavo dei sandali. Il pubblico quando entravo in scena rideva. Che il pubblico dovesse ridere lo dicevo a me stesso, mi serviva per caricarmi.
Nel 1935 a Cremona hai frequentato la scuola commerciale Guido Grandi; un tuo insegnante ha raccontato che eri l’unico allievo privo di senso dell’umorismo. È vero?
Proprio l’unico? Cattivo questo professore.
Cos’è il successo per te?
Non l’ho mai capito molto bene, sinceramente me lo sono domandato poche volte. Bisognerebbe chiederlo a uno che il successo non lo ha avuto.
Quando hai sentito di essere diventato qualcuno?
Non l’ho mai sentito. So benissimo di essere considerato, insieme ad altri, un attore importante, mi arrabbio quando qualcuno scopre con meraviglia che sono anche bravo. Non lo prendo come un complimento anche perché non sono più un ragazzo e di prove ne ho superate tante.
Tuo padre, assicuratore, quale avvenire sognava per te?
Mio padre si ammalò quando tra noi stava iniziando un dialogo. Ricordo che una volta mi mise un violino in mano, non ho mai capito il perché. Il violino sparì e non feci mai una lezione. Mia madre, invece, mi voleva prete.
Hai sempre sognato di fare l’attore?
Volevo non fare l’impiegato, questo sì. Gli amici del palazzo dove abitavamo mi dicevano: “Ugo come farai, che non hai il titolo di studio. Quando noi avremo finito la scuola Ala Ponzone Cimino: uno andrà all’Alfa Romeo, l’altro in banca e tu dove andrai?”. Questo mi preoccupava perché non eccellevo da nessuna parte. Per prima cosa pensai al calcio, decisi di formare una squadra. Andai a Milano, trovai le maglie, le scarpe, dopo qualche partita mi misero fuori squadra perché non ero bravo, poi mi ruppi un ginocchio e il sogno del calcio finì. L’idea di fare l’attore è nata così: a Cremona andavo da solo a vedere gli avanspettacoli, le riviste, mi divertivo a copiare alcune battute, certe barzellette che poi ripetevo agli amici, che si divertivano, ridevano a crepapelle. Ho cominciato a pensare che forse avevo qualche numero.
Cosa ti dispiace del tuo mestiere di attore. L’attore comico che deve fare sempre ridere dentro e fuori il palcoscenico?
Enzo, ti riferisci a una volta quando l’attore comico era considerato un po’ imbecille, ora non è più così. Ogni tanto incontro qualcuno che mi dice: “Come la vedo mi metto a ridere”. Non è una battuta divertente per chi la riceve.
Durante la Repubblica di Salò hai fatto una recita che ricordi sempre, che cosa aveva di particolare?
Ottobre ’44, ero a Milano, avevo fatto un concorso per dilettanti, due impresari mi avevano scelto per fare l’avanspettacolo nei cinema milanesi: l’Ambrosiano, il Nazionale, il Carcano, il Fossati… Un giorno mi dissero: “Hanno saputo di te Wanda Osiris e gli autori Bracchi e D’Anzi, domani verranno a vederti”. Enzo ti puoi immaginare quanto fossi emozionatissimo, avevo l’occasione di andare con l’Osiris: era il massimo. Il mattino dopo ci fu un bombardamento tremendo nel quartiere Gorla, quello famoso dove fu colpita una scuola e morirono tanti bambini. Nel pomeriggio, finito l’allarme, la vita riprese più o meno regolarmente. Ti puoi immaginare lo stato d’animo. Feci lo spettacolo con la platea completamente vuota, gli unici spettatori erano l’Osiris, Bracchi e Danzi. Alla fine mi scritturarono e mi proposero un contratto. La scrittura prevedeva un compenso di 1.000 lire al giorno, le tenevo sul comodino così quando mi svegliavo vedevo già il guadagno e pensavo che sarebbe stata una giornata favolosa. Con l’Osiris non lavorai mai perché arrivò la Liberazione e l’impresario scappò.
Il tuo primo lavoro è stato quello di impiegato al salumificio Negroni.
Alla notte facevo i primi spettacoli da dilettante, quindi i miei progetti li facevo durante le otto ore d’ufficio. Riuscii anche a risolvere tanti piccoli problemi, uno era quello di dormire senza che se ne accorgesse il capoufficio. Lui stava dietro a una vetrata e vedeva le nostre spalle, mentre noi non potevamo vedere lui. Sul tavolo avevo un grande registro, una macchina calcolatrice e una da scrivere, durante i pomeriggi d’estate, quando mi prendeva quella sonnolenza tremenda, prendevo una matita a cui avevo applicato un gommone da cancellare, me lo appoggiavo al mento, assumevo una posa che vista di spalle era quella di uno molto attento sul registro invece io ero appoggiato alla matita con gli occhi chiusi e con una mano sopra la calcolatrice per farle fare rumore come se stessi facendo delle operazioni. Erano sonnellini di qualche minuto… Una volta ho fatto battere in ufficio la parodia del capoufficio sul motivo del “Tango del mare”. Il capo lo chiamavamo Bigio perché non era molto allegro. La canzone faceva: “Bigio perché tutto il giorno debbo restare in ufficio e non posso fumare neanche una popolar. Dimmi cos’è quel grugnir di maiali laggiù quell’odor che ogni tanto vien su…”. Lavoravamo in un salumificio dove ammazzavano 500 maiali ogni mattina, non si poteva pretendere che non ci fosse quell’odore e il grugnito dell’animale che veniva ucciso era raccapricciante, mentre nel pomeriggio stavamo tranquilli perché facevano gli insaccati nel silenzio di morte.
Quando ti licenziarono cosa accadde?
Avvenne tutto in modo pacifico e tranquillo perché avevo già trovato un altro impiego che mi sarebbe potuto costare caro, perché andai dalle camicie nere a fare il segretario del federale o del vice, non ricordo. Dopo sei mesi partii per il militare. Al ritorno ero praticamente il capo famiglia e mi presentai alla Casa del Fascio, dal dottor Monghini, che mi aveva assunto a suo tempo, che mi disse: “Non sarai mica matto a tornare qui!”. Era il periodo della Repubblica di Salò, Monghini mi consigliò di andare da qualche altra parte, anche perché per lavorare avrei dovuto prendere la tessera, Allora andai a Milano e decisi di diventare un attore.
La vita di provincia com’era? Con Roberto Farinacci, il Ras di Cremona...
A Cremona ho vissuto i primi anni, mio padre viaggiava e a volte era costretto a fuggire velocemente dagli assicurati. Una volta l’assicuratore era considerato uno iettatore perché faceva l’assicurazione contro la grandine, andava dal contadino e gli diceva: “L’anno venturo la grandine distruggerà il raccolto”. Quello cominciava a prenderlo a schiaffi o a dargli delle spinte. Gli affari non andavano molto bene. Da Cremona andammo nel Veneto, abbiamo vissuto più o meno in tutte le città. Allora i mezzi di comunicazione erano talmente disastrati che per mio padre era sufficiente spostarsi di 50 chilometri per sparire. Tornai a Cremona nel 1935, avevo poco più di tredici anni.
Mussolini l’hai mai visto?
Sì, quando venne a Cremona. Rischiai di essere investito dalla sua macchina. Ero in mezzo alla folla sul corso principale e lui in piedi sulla macchina scoperta che salutava. Mi colpì la differenza con il Mussolini che vedevo nei cinegiornali, i suoi discorsi pieni di enfasi, quel giorno mi resi conto che era tutto costruito. Mentre lui stava sulla macchina con le gambe larghe, ma con l’equilibrio instabile, quando l’autista frenava rischiò più volte di cadere. A un certo punto, io ero davanti alla folla e la macchina mi sfiorò e sentii uno con l’accento romagnolo dire all’autista: “Attento che lo investi”. L’impressione che ebbi di lui, almeno per qualche secondo, fu quella di un uomo normale e non di un supercapo.
Sei diventato balilla marinaio?
No, prima ero negli avanguardisti, poi sono stato balilla agricoltore, poi tornati a Cremona, sono diventato balilla pompiere, ma ho smesso quasi subito perché, durante un’esercitazione, mi hanno buttato nel telone da circa sette metri d’altezza, per uno che soffre di vertigini è stata una cosa terribile.
Una volta mi hai raccontato di una leggendaria sfilata in piazza.
Esclavo era un mio amico omosessuale, a modo suo antifascista. Faceva parte delle organizzazioni giovanili, camicia nera, fascia grigio verde, doveva fare, come tutti, l’esercitazione lungo le strade di Cremona. Certo il suo andamento era un po’ meno marziale rispetto a quello degli altri: lui marciava sculettando. Cantavano in coro un inno che lo divertiva moltissimo: “Una maschia gioventù, con romana volontà, combatterà: verrà, verrà…”.
Entusiasta di stare con una “maschia gioventù”.
Certamente. Lo ricordo come un ragazzo molto ironico. Gli amici e i cremonesi che lo conoscevano che assistevano alla sfilata gli urlavano: “Oh Esclavo…” e lui facendo il saluto romano: “Vita al cul, viva il Duce… una maschia gioventù…”. E gli amici ad applaudire.
Io ricordo che quando è venuto in Italia Hitler, il Carlino, il giornale dove lavoravo, fece come titolo: “La prima virile notte di Hitler”. Fu un errore di stampa, fece storia.
Come doveva essere il titolo?
“La primaverile notte di Hitler”.
Conseguenze?
Il tipografo ebbe delle grane, ma nulla di drammatico. Hai interpretato un film di Pietro Germi, “L’immorale”, dove facevi un personaggio che aveva due famiglie. Credi che Germi ti abbia scelto a caso come protagonista?
Non gliel’ho mai chiesto, perché Germi metteva un po’ di soggezione, però l’ho pensato. Ma io non ho due famiglie. Ho uno spargimento di figli che non appartengono allo stesso nucleo familiare, questo sì.
Ti sei autodefinito un illegale regolare, mi puoi spiegare questo tuo modo di pensare.
A un personaggio conosciuto come me, questa presunta illegalità da un punto di vista formale mi porta a subire molte critiche. Io sono a posto con me stesso, per me la lealtà del rapporto è quello che conta, bisogna essere onesti e sinceri con se stessi e con gli altri. Quando stavo con una donna, anche se non eravamo sposati, mi sono sempre comportato come un marito.
Tu hai detto che quando uno smette di fare l’amore significa che la morte è vicina. Ma questo sesso è così importante, fondamentale?
Per me è fondamentale, penso che lo sia anche in generale. È chiaro che non vivo senza mangiare, senza bere e non vivo nemmeno senza lavorare, ma non posso vivere pensando di non fare l’amore. Il giorno che non lo farò più sentirò aprirsi quella porticina che porta all’aldilà.
Cosa cerchi in una compagna, in una donna?
Cerco sempre il desiderio di vederla, per questo io sto sempre con una donna che non frequento. Questo accade anche con mia moglie.
Hai mai pensato come un giorno ti potranno giudicare i tuoi figli?
Su questo sono tranquillo perché ho fiducia nei giovani, la generazione di adesso, rispetto alla nostra, è molto più sveglia, è in grado di capire se c’è buona fede.
Quali sono le tue speranze?
Io vivo in campagna, mi piace fare da mangiare, ho cominciato ad amare i rapanelli che stanno sottoterra e mi hanno fatto conoscere questo grande bene che è la terra, che non la considero più solo una cosa da calpestare, ma da proteggere. La terra ci dà da vivere. Mi piacerebbe finire in bellezza con il mio lavoro, poi mi ritirerò e cercherò di approfondire il mio rapporto con la terra, che ha bisogno di tanto aiuto.