Ro. Fe., Libero 3/10/2013, 3 ottobre 2013
«A MUSSOLINI DOBBIAMO TUTTO PER IL CAPO HO SOLO GRATITUDINE»
Almeno fino al principio degli anni Trenta, quella di Margherita Sarfatti fu la mano invisibile che resse le mille trame tanto della politica interna quanto di quella estera di Mussolini. Finché il Duce si fidò di lei, e ne ascoltò i suggerimenti, Margherita fu all’origine di molte delle felici intuizioni che contraddistinsero lo stile dei primi anni di governo del dittatore, quasi sempre moderato e ragionevole nella politica internazionale, nonché attento a preservare, sul piano interno, il delicato equilibrio di poteri e contropoteri su cui si fondava il diffuso consenso attorno al fascismo.
Il Fondo sarfattiano, acquisito dal Mart di Rovereto nel 2009, e ora finalmente venuto alla luce dopo l’opera di riordino delle carte, svela molti retroscena e segreti del Ventennio. In questo autentico sancta sanctorum, spicca un patrimonio di corrispondenze non di rado esplosive. È il caso di alcune lettere inedite di Dino Grandi, dalle quali emerge la conferma dell’ambizione smodata, e spregiudicata, del gerarca che fu l’architetto dell’oscura manovra del 25 luglio 1943, che fece cadere Mussolini.
TRATTI MEFISTOFELICI
Chi fu, anzitutto, Grandi, conte di Mordano? Nato nel 1895, impostosi come leader fascista di primo piano a Bologna nella fase dello squadrismo, era un uomo mefistofelico, fin nei tratti fisici e nel portamento. Votato agli intrighi, aveva qualità politiche di primo ordine. Divenuto, nel 1929, a soli 34 anni, ministro degli Esteri, nel ’32 fu mandato come ambasciatore a Londra, dove riuscì a cattivarsi la fiducia dei britannici,spianandola strada a fruttuose intese tra i due Paesi. Occorre subito precisare che Grandi, nella capitale inglese, assunse iniziative personali che lo elevarono a una posizione ben superiore al suo rango ufficiale. Al punto che non è azzardato affermare che operò a Londra come una sorta di ministro degli Esteri: il che nasceva anche dalla sua difficoltà ad accettare l’avvenuta rimozione dall’incarico governativo.
A perfetto agio negli ambienti della Corte britannica, fu straordinariamente abile nel condurre i suoi primari obiettivi politici. Fedele solo a se stesso, e al proprio rampantismo, il conte di Mordano si comportò sempre da cortigiano con il Duce, salvo poi esigerne la testa, ergendosi a supremo giudice, nella tumultuosa seduta del Gran Consiglio del fascismo del 24-25 luglio ’43.
Che Grandi fosse un opportunista e un traditore nato è arcinoto. Ma suscita qualche meraviglia leggere con quale deferenza si rivolgesse a Margherita Sarfatti, nella missiva che le scrisse il 2 novembre 1922. Ossia, cinque soli giorni dopo la Marcia su Roma. Purtroppo, non possediamo la precedente lettera (o cartolina) che gli aveva indirizzato la musa del Capo. Ma, dal tono della risposta della donna, si comprende che essa gli aveva rivolto l’invito ad assumere un qualche ruolo importante nella vita nazionale, dopo la vittoria del fascismo, stimolandolo anche a collaborare alla sua rivista, Gerarchia.
Il passo compiuto da Margherita Sarfatti non poteva non aver ricevuto l’avallo preventivo di Mussolini; di più, forse era stato lo stesso Duce a sollecitarla a scrivere a Grandi, allo scopo di riassorbirne il dissenso, nel quadro di un’auspicata sintesi superiore delle varie correnti del fascismo. Il leader bolognese, infatti, era stato fra gli oppositori della Marcia su Roma, almeno nella sua accezione di “strappo” rivoluzionario, ritenendo che il movimento delle camicie nere dovesse invece restaurare l’autorità dello Stato rientrando motu proprio nell’alveo costituzionale.
Grandi non era peraltro nuovo al dissenso nei confronti del capo. Già nel ’21, opponendosi al patto di pacificazione tra fascisti e socialisti voluto da Mussolini, era andato a offrire a D’Annunzio la guida del movimento. E fino al 1943, Grandi non cessò mai di pensare a se stesso come al successore del Duce, tramando nell’ombra per soffiargli la leadership.
Ma ecco il documento: «Gentilissima signora, trovo oggi, ritornato da Roma, dopo queste giornate di trionfo e di passione, la sua gentile cartolina. Ella ha ragione. Ma come potevo prima d’oggi? Oggi vorrei proprio, dopoché si è chiuso vittoriosamente il periodo eroico del Fascismo, riprendere con metodo e disciplina i miei antichi lavori e la mia attività, cui ho ripensato sempre con tanta nostalgia. A Gerarchia darò tutto il mio modesto contributo. Essa sarà la Palestra di tutta la gioventù intellettuale di domani. Ho parecchi giovani pieni di intelligenza che avrò l’onore di presentarle presto. Io rimango nel Paese a servire colla maggiore buona volontà la nostra causa, che oggi si riassume tutta in un nome, quello di Mussolini, al quale noi dobbiamo - e solo a lui - tutto. Gradisca, signora, i sensi della mia devozione. Dino Grandi».
La lettera riportò il sereno nei rapporti tra i due contendenti. Grandi, non a caso, chiarì le proprie posizioni, riconoscendo la vittoria del fascismo e piegandosi al carisma del Duce, con un suo articolo apparso proprio su Gerarchia.
Trascorrono dieci anni e Grandi viene defenestrato dal ministero degli Esteri. Si potrebbe pensare a una reazione incollerita del gerarca per essere stato silurato da Mussolini. Ma ecco, invece, che cosa scrive alla Sarfatti, il giorno stesso del suo licenziamento, il 20 luglio 1932: «Cara Donna Margherita, grazie del suo buon telegramma. Un solo sentimento: la gratitudine verso il mio Capo per avermi consentito di lavorare al suo fianco per otto anni. Mi creda colla vecchia buona amicizia che Ella sa. Suo devotissimo Grandi».
UN PACIFISTA A ROMA
Di pochi mesi prima, ossia, del 22 marzo 1932, è un’altra lettera di Grandi alla Gran Dama del fascismo. Oggetto della missiva è un’iniziativa che sta a cuore a Margherita: una missione preparatoria alla venuta a Roma del critico d’arte e pacifista franco-polacco Waldemar George, che l’anno precedente aveva enunciato la sua teoria sull’arte umanista. Sua tesi di fondo era di ritenere degenerata e materialista l’arte moderna, alla quale bisognava contrapporre il recupero dell’arte classica della romanità imperiale.
Questa lettera di Grandi ha un tono ufficiale, perché viene da colui che è ancora il ministro degli Esteri. Eccone il passaggio principale: «Circa la Conferenza Waldemar George, nessuna difficoltà da parte mia per il biglietto di viaggio e le 1000 lire di diaria, diremo così. Sennonché l’amico Polverelli mi ha riferito che S. E. il Capo del governo, col quale egli ne aveva precedentemente parlato, si è dichiarato non favorevole a questa Conferenza, e ieri sera ho avuto io stesso modo di sincerarmi dell’esattezza di ciò, parlando direttamente con Lui. In queste condizioni non credo si possa far venire il W. George, non le pare? ».
La ninfa Egeria del Ventennio non si diede per vinta e tornò alla carica. Tanto che Waldemar George poté giungere a Roma, nel marzo del 1933. Il critico d’arte ebbe anche un colloquio ufficiale con Mussolini a Palazzo Venezia.
(3 - Continua)