Marco Revelli, la Repubblica 3/10/2013, 3 ottobre 2013
DA CAVOUR AI PEONES
Il termine “moderato” ha un significato inequivoco, almeno sul piano linguistico. Deriva dal latino modus, che sta per norma, regola, misura, atteggiamento di chi «si mantiene nei giusti limiti» (Dizionario Gabrielli). O «lontano dagli eccessi» (Treccani), nel mangiare, nel bere o anche nell’attività sessuale. Suoi sinonimi sono “temperato”, “misurato”, persino “castigato” o “casto” e “pudico” (sic), ma anche, “parco”, “umile”, “dimesso”… Più contrastato il significato politico. Il Grande Dizionario Italiano dell’Uso di De Mauro definisce così «chi sta in una posizione di centro, lontano da ogni estremismo», altri «chi tende al compromesso, astenendosi da posizioni di rottura e da innovazioni troppo radicali». Storicamente, nella nostra vicenda nazionale, il Partito moderato ha raccolto i fautori del moto risorgimentale che si riconoscevano nelle posizioni di Cesare Balbo, dello stesso Gioberti, di Cavour in nome di un processo unitario “tranquillo”, senza rotture rivoluzionarie, da realizzare sotto il controllo delle diplomazia sabauda e con il beneplacito della Chiesa. Soprattutto senza il protagonismo delle masse. Non per niente la storiografia risorgimentale contrappone i “moderati” ai “democratici”. E il pensiero democratico radicale, da Salvemini a Gobetti, allo stesso Gramsci indicano nell’egemonia “moderata” la ragione delle tare storiche della nostra vita politica, per essere il nostro, nella sua origine, «uno Stato senza popolo».
Moderati, d’altra parte, non sono solo gli austeri padri della “destra storica”. Sono anche i mediocri peones che costituiranno la base parlamentare del Trasformismo, gente che appunto, avendo una fede politica “moderata” – cioè mediana o mediocre o debole – erano pronti a voltar gabbana a seconda dell’interesse del momento, i “ministeriali” per vocazione che costituiranno quel “grande centro” che carsicamente ha segnato la vita politica italiana. E moderati saranno coloro che passivamente, per conformistico servilismo nei confronti della Corona, approveranno il cosiddetto “colpo di Stato” di fine-secolo, culminato con gli eccidi milanesi di Bava Beccaris. Come “moderati” furono i tanti (quasi tutti) esponenti liberali e cattolici che nel 1924 confluiranno nel Listone fascista. È tema ricorrente nella storia italiana l’uso che dei “moderati” – del moderatismo “passivo” come viene definito in dottrina – è stato fatto da èlites dispotiche o autoritarie (queste sì attive). Ed è, allo stesso modo, carattere reiterato della nostra storia patria la disponibilità pervicace di ampi settori di massa – della cosiddetta “zona grigia”, “moderata” per definizione – a farsi strumento di personalità forti, senza né moderazione né scrupoli, che l’hanno usata come maschera per politiche in realtà “estreme”. Salvo poi, nel “momento della verità”, vedersene abbandonate.
Così è stato per la “crisi di fine secolo”, con i moderati trasferitisi armi e bagagli nel campo giolittiano. Così è stato per Benito Mussolini, abbandonato nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943 dai suoi “moderati” (o dagli ex estremisti diventati per gli esiti della guerra “moderati”), mentre sotto le finestre del Palazzo la folla fino a poco prima disciplinatamente inquadrata nelle adunate di massa, come si addice a dei buoni “moderati”, si scatenava nell’abbattimento dei simboli del Regime. Così avviene nelle democrazie fragili – o nei Paesi a democrazia troppo “moderata” -, quando la maschera si separa dal volto, e gli si rivolta contro.