Giancarlo Bosetti, la Repubblica 3/10/2013, 3 ottobre 2013
MODERATI
Anche se viviamo giorni in cui l’Italia ha gran desiderio di moderazione e di moderati, bisogna riconoscere che il concetto di “moderatismo” in politica non ha avuto storicamente buona stampa, tant’è vero che secondo il Devoto-Oli quella parola definisce un atteggiamento «in senso sfavorevole». C’è una spiegazione per questo nella storia italiana e viene dal mondo cattolico che l’ha usata negativamente per definire la sua ala più disponibile a trattare prima con lo stato risorgimentale e, più tardi, con il fascismo. Il moderatismo era in questo caso il contrario della “intransigenza” di Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare, che riteneva la sua creatura incompatibile con il regime di Mussolini.
La parola era dunque già compromessa con la dittatura e aggravò la sua posizione, con la fine della guerra, quando si accoppiò con il conservatorismo “afascista” e con il rifiuto dell’antifascismo nel nome dell’“anti-antifascismo” di cui alle celebri discussioni di Norberto Bobbio ed Augusto Del Noce: il primo era stato favorevole alla alleanza della democrazia con il comunismo contro il fascismo e il nazismo, il secondo no. Da lì in avanti, con la guerra fredda, la storia del “moderatismo” si mescola con quella del centrismo, della Democrazia cristiana, ma anche del Partito liberale di Giovanni Malagodi. Nel linguaggio corrente è finito così per prevalere, quando si parla di moderatismo, il richiamo degli argomenti liberali contro il comunismo, ma insieme anche una prospettiva socialmente conservatrice.
Se però ci svincoliamo da questa gabbia storico-linguistica e ci rivolgiamo alla “moderazione” come virtù ispirata dalla prudenza e dal senso della misura, allora lo scenario concettuale cambia. Non parliamo più dei “cedimenti” politici o morali, di qualunque genere, per biasimarli e distinguerli dall’intransigenza, ma di una caratteristica fondamentale dei sistemi democratici, che hanno la loro anima e il loro fondamento proprio qui: nella capacità di contenere i conflitti dentro un perimetro pacifico e di rispetto reciproco tra le parti in lotta per il governo. E qui ci troviamo al deficit di moderazione, che è diventato strutturale con l’entrata in scena della anomala coalizione inventata nel 1994 da Berlusconi con Forza Italia, la Lega e poi con Casini e con Fini. Questi ultimi due, il primo per la natura stessa della sua formazione democristiana, il secondo per la direzione intrapresa con la svolta di Fiuggi, hanno dato presto (così come i “dissidenti” degli ultimi giorni) segni di quella evoluzione moderata alla quale la Lega risultava geneticamente e bossianamente refrattaria e alla quale il movimento di Berlusconi non si è mai adattato nonostante le promesse liberali, presto uscite di scena insieme a un manipolo di professori di buona volontà e di buona educazione.
Gli studi comparativi su come nascono le democrazie mostrano uno schema comune: la fazioni abbandonano la violenza e la vendetta nei confronti della parte sconfitta, le rispettive classi dirigenti si riconoscono e legittimano reciprocamente e – non mancava mai di ricordare Barrington Moore Junior, l’autore di Le origini sociali della dittatura e della democrazia – nei casi di maggior successo si somigliano sempre di più, si laureano nelle stesse università e sviluppano affinità anche nello stile di vita e nel modo di fare vacanza (Noteremo qui che quello italiano non è uno di questi casi). La storia della democrazia è, dunque, nella sua quintessenza, una storia di moderazione, cortesia e autolimitazione degli impulsi più selvaggi.
Il cammino non è rapido, è pieno di ostacoli che possono impegnare generazioni a essere levigati, elaborati e dimenticati; ma una volta usciti dai conflitti più atroci e dalle guerre civili (dagli Stati Uniti fino al Medio Oriente passando per i Balcani), la qualità dello sviluppo democratico dipende dalla capacità di tenere sotto controllo l’estremismo, il radicalismo e il massimalismo, che sono i nomi dei vizi contrari alla moderazione. La politica italiana ha avuto, nella svolta di vent’anni fa, con l’abbandono del sistema proporzionale e l’avvio di un bipolarismo molto imperfetto, un ritorno di primitivismo nel linguaggio e nella mobilitazione elettorale permanente, ad opera in particolare di quello che Edmondo Berselli chiamò “forzaleghismo”. La campagna elettorale del 2006 è stato un caso di scuola per l’escalation di insulti che l’ha dominata. I toni smisurati in cui si consumano le vicende di questi giorni, gli insulti alle istituzioni da parte di dirigenti del Pdl, di Grillo, le offese razziste e sessiste diffuse sul web, al ministro Kyenge, alla Presidente della Camera Boldrini, confermano che la sfera pubblica italiana ha avuto una regressione.
Vent’anni d’insulti sembrano ora sufficienti per restituire alla parola “moderati” una nuova giovinezza politica e per ridisegnare l’intera arena. Su chi la saprà meglio interpretare la partita è aperta tra centrodestra e centrosinistra. Non è di sicuro un caso che l’ultimo numero della rivista Ventunesimo Secolo (direttore Gaetano Quagliariello, uno dei protagonisti della rottura del Pdl) sia monografico e dedicato ai “moderatismi nella storia d’Italia”. Era più di un avvertimento. Quella vicenda semantica sfavorevole del moderatismo, molto italiana, può avere un seguito diverso. Dopotutto la moderazione èun timbro di successo e generalmente di benessere. Scriveva Montaigne negli Essais che era la felicità l’“aguillon”, il pungolo, che lo induceva singolarmente alla moderazione.