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 2013  ottobre 03 Giovedì calendario

MASCHI E FEMMINE SEPARATI IN CLASSE È VERO CHE DIVISI SI IMPARA DI PIÙ?


Inizio ottobre in Gran Bretagna. Per le strade di Londra gli studenti in divisa entrano in classe: i maschi da una parte, le femmine dall’altra. Ma quella che agli occhi di un italiano può sembrare una scena d’altri tempi, nel Regno Unito è la normalità. Nella classifica britannica dei migliori istituti secondari privati quelli omogenei, dove gli studenti sono separati per sesso, rappresentano 9 delle prime 10 scuole, 7 femminili, 2 maschili. Anche nelle pubbliche, 8 dei primi 10 istituti sono mono-genere, 3 femminili e 5 maschili; un risultato eccellente, soprattutto se si pensa che sono soltanto il 2% del sistema statale. Lo stesso accade negli Stati Uniti, dove la scelta di dividere i sessi è una realtà consolidata, anche se minoritaria. Ancora oggi sono molte le donne leader che hanno studiato in un college femminile e ne sponsorizzano la scelta, a cominciare da Hillary Clinton e Nancy Pelosi. Nel mondo le scuole mono-genere, sia statali che non statali, sono più di 210 mila con oltre 40 milioni di alunni.
I fautori dell’educazione separata sostengono che ragazzi e ragazze hanno stili e ritmi di apprendimento molto distanti tra loro. Di conseguenza, un insegnamento che li tratti come se fossero identici, utilizzando la stessa strategia didattica, va a svantaggio di entrambi. L’idea non è quella di impartire un’educazione diversa nei contenuti ma di potenziare al massimo le capacità individuali, riducendo così gli stereotipi di genere, quelli che, per esempio, vogliono i maschi bravi nelle materie scientifiche e le femmine in quelle umanistiche.
L’argomento è controverso e suscita anche forti reazioni. «Dividendo non si fa che aumentare l’incisività di vecchi stereotipi — ha spiegato al Corriere la psichiatra Federica Mormando —, in pratica si autorizza la maggior violenza dei maschi e si educano le bambine a essere vittime». Nel nostro Paese la separazione tra i sessi nelle scuole statali è stata abbandonata negli anni 60 in nome delle pari opportunità, ma oggi il mondo discute un ritorno al passato proprio per combattere le disparità di genere. Tuttavia nel nostro Paese l’idea è bollata a priori come retrograda, perché? «Effettivamente in Italia — spiega al Corriere Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile — c’è un forte pregiudizio contro questo tipo di scelta perché, trovandoci in un Paese di cultura cattolica, immediatamente la divisione fra sessi fa pensare che ci sia in chi la fa una sorta di paura a far condividere lo spazio e il tempo tra i maschi e le femmine».
Carlo Finulli insegna dal 1984 in una scuola elementare maschile di Milano gestita dal Faes, un’associazione di genitori e insegnanti che si rifà ai principi educativi del fondatore dell’Opus Dei, Josemaría Escrivá. «Le bambine sin da piccole sono più ordinate e possono seguire lezioni più lunghe — spiega al Corriere —. I bambini hanno bisogno di più pause e di molta competitività. I dati dimostrano che nelle classi miste le femmine non danno il massimo perché si adeguano al ritmo dei maschi». Le scuole del Faes sono le uniche a essere mono-genere in Italia: quattordici istituti in sette città, da Milano a Palermo, con circa 3 mila alunni. Il metodo sembra dare buoni frutti: nel 2012, secondo uno studio condotto dalla Fondazione Agnelli, il liceo classico Monforte è risultato il primo a Milano e il 19esimo nella classifica generale della Lombardia.
Al Collegio San Carlo di Milano, che ha appena ottenuto, per il quarto anno consecutivo, l’alfierato del lavoro con una delle 25 maturità più brillanti d’Italia, non negano le differenze tra i due sessi ma restano convinti della scelta, fatta nel 1985, di passare alla classi miste: «Sappiamo che le diversità possono creare qualche problema ma alla fine maschi e femmine si aiutano tra di loro — spiega al Corriere il rettore don Aldo Geranzani —. Tutto dipende dalle capacità del docente di fare una didattica il più possibile personalizzata tenendo conto delle inclinazioni di ognuno. L’importante, però, che le classi siano piccole».