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 2013  ottobre 02 Mercoledì calendario

GLI 80 ANNI DI PAMICH “IMPARAI A MARCIARE SCAPPANDO DALL’ISTRIA”


Ha marciato dalla terra alla luna, scrisse un quotidiano quando Abdon Pamich lasciò l’atletica. Fecero i conti, circa 400 mila chilometri tra gare e allenamenti. In realtà sono stati molti di più, nemmeno lui è in grado di ipotizzare una cifra vicina alla realtà, alle soglie degli ottant’anni. Li compie domani, auguri. E spiega: «La mia marcia cominciò quando ne avevo appena 14, scappai clandestinamente da Fiume con mio fratello, lui 15, quando per gli italiani si era fatta durissima, arrivammo a piedi fino a Udine per raggiungere un campo di smistamento profughi con il rischio che ci sparassero. Penso che quella sia stata la mia vera vittoria olimpica, la medaglia fu conquistare la vita».
Lo sport ricorda il campione istriano per il successo quasi fantozziano nella 50 km delle Olimpiadi di Tokyo 1964, quando in fuga con l’inglese Nihill dovette fermarsi in preda a violenti dolori addominali, colpa di un’intossicazione alimentare. È vero che si nascose dietro una siepe, per liberarsi? «Falso. Era impossibile uscire dal circuito transennato, feci quello che dovevo fare sotto gli occhi degli spettatori giapponesi. Prima erano perplessi, quando ripartii mi applaudirono…». Dei Giochi di Tokyo, Pamich resta l’icona più bella perché fu l’unica medaglia d’oro non solo dell’atletica, ma di tutto lo sport azzurro un po’ in ribasso dopo Roma 1960. Quel filo di lana spezzato con rabbia resta una copertina irripetibile. E non è stata certo fantozziana la sua carriera, lunga più di vent’anni, ricca di successi. «Rimpianti? Non ne ho, anche se potevo già vincere a Melbourne ’56, a soli 23 anni. Ero pronto a spaccare il mondo, ma allora era tutto un fai da te. I marciatori erano allenati da un lanciatore, Giorgio Oberweger. Pochi giorni prima della gara olimpica ci costrinsero a fare una prova generale di 60 km, ci dissero anche di non bere per asciugare bene il fisico. Non recuperai, fui quarto».
Era pelle e ossa, figura ascetica nel fisico e nei modi, riservato. «Con le persone mi trovavo più a mio agio quando ero in mutande…». La marcia sembrava nel suo destino da sempre, ritagliata apposta per lui, lunghe camminate solitarie, ma in realtà ci arrivò quasi per caso. Scoppiava di energia, da ragazzo, fiero rappresentante di quella razza multietnica istriana che ha dato all’Italia campioni da leggenda; disputò le campestri, giocò a calcio e pareva promettente, lo volevano portiere, ma stare immobile fra i pali era una tortura. Gli chiesero di fare una gara di marcia, per curiosità accettò anche se alla sua giovane età aveva visto soltanto un filmato di una 100 km. Fu la sua vita. «Due vite parallele se vogliamo, perché non smisi mai di lavorare, funzionario Esso, viaggiavo di notte e mi allenavo di giorno». Ritorni economici? «Cambiamo domanda, per favore. Mi promisero 50 mila lire, a un certo punto. Non le ho mai viste… Però ho fatto a tempo a prendere due lauree, psicologia e sociologia, e ho vissuto come più mi piaceva».
Abdon Pamich arriva a ottant’anni in forma olimpica, 73 chili proprio come allora, che sul suo metro e 84 quasi non si vedono. Continua a marciare? «Ora devo assistere mia moglie inferma», dice senza ombra di rimpianti. L’ultima domanda è d’obbligo: parliamo di Alex Schwazer? «Tanti atleti oggi sono più fragili di un tempo, la paura della sconfitta li porta a fare cose sbagliate. Non giudico, ognuno è sempre solo con se stesso e con la propria coscienza».