Tommaso Farina, Libero 2/10/2013, 2 ottobre 2013
IL DECANO DEI CUOCHI BOCCIA GLI CHEF «LORO VANNO IN TV, IO FACCIO MANGIARE»
[Giacomo Bulleri]
Arrivare a novant’anni, o quasi, senza essere ancora sazi del mondo. Il sogno di tutta l’umanità, probabilmente. Raggiungere questo traguardo dopo una vita di lavoro, di progetti tutti concretizzati, di successo, e non essere ancora contenti? Giacomo Bulleri, classe 1925, ristoratore tra i più popolari a Milano, non se lo sogna nemmeno: «Sono capriccioso come un ragazzino, se voglio una cosa e riesco a farla dopo ne voglio ancora di più». L’ultimo coniglio che ha estratto dal cappello è un libro. Lui, lettore accanito, ha deciso di prendere la penna in mano: Ricette di vita si chiama la sua fatica editoriale appena nata per Bompiani. E non è un libro di cucina, anche se qualche ricetta autografa compare davvero. È il libro della sua vita. E quindi, di riflesso, è un’immensa, amorevole retrospettiva di una vita passata prima ai fornelli di ristoranti altrui, poi al timone del suo desco personale, che si chiama appunto Giacomo e che, negli anni, ha visto la germinazione di un più sportivo Giacomo Bistrot e, soprattutto, del nuovo Giacomo Arengario, che impreziosisce il Museo del Novecento ambientato nel milanese palazzo costruito dal Portaluppi in epoca fascista.
Quindi, Giacomo, lei oltre che il manager ha anche fatto lo chef?
«Cuoco, prego. Gli chef sono quelli che vanno in televisione. Io ho sempre fatto piatti, piatti da mangiare».
Seguace della tradizione?
«Sì. Arrosti, bolliti, zuppe. La vecchia, buona cucina tradizionale di una volta».
E perché nel suo ristorante milanese invece ha deciso di preferire il pesce?
«Perché a un certo punto è scoppiata la ricerca del pesce, del mangiar più leggero. Quindi, ho deciso di venire incontro a potenziali clienti che poi hanno apprezzato la mia scelta».
Questo a Milano. Ma lei viene dalla Toscana...
«Vengo da Collodi, il paese del Lorenzini, lo scrittore di Pinocchio. Alla fine, al paese ci sono rimasto poco, ma ricordo, eccome se ricordo, certe feste stupende. Le feste dell’aia, le feste dei contadini che organizzava mio padre. Un clima stupendo di amicizia conviviale. Venivano anche dei cantanti lirici ambulanti (allora esistevano) che si esibivano nella Tosca e nella Pia de’ Tolomei. Qualcosa di irripetibile, finché è durato».
Già. Poi dovette andarsene, come racconta nel libro...
«Ho dovuto salire al nord a cercar fortuna, come molti toscani:non solo dal sud c’è stato questo flusso. Solo che nel mio caso non si trattava di un salto nel buio. Noi toscani venivamo al nord quando potevamo appoggiarci a qualche amico o parente che era già salito prima di noi. Avevo dodici anni, avevo finito le elementari in Toscana. Ora dovevo andare a Torino. E’ lì che ho scoperto la mia strada».
Quella dei fornelli?
«Dopo vari lavoretti di pura sussistenza cominciarono a prendermi in cucina, a nemmeno vent’anni sapevo cucinare. A 15-16 anni davo una mano a spignattare in un ristorante che si chiamava “Il Giappone”».
Cucina giapponese?
«No, piemontese. Mai stato modernista, neanche oggi. Ho imparato con la vecchia tradizione torinese e piemontese: le fondute, il bollito al carrello, gli arrosti... Poi arrivò la guerra, bombardarono il ristorante. Rimanemmo sepolti in cantina per una notte».
E poi?
«Il primo colpo di testa. Cambiai vita. Decisi di fare il ferroviere. Vinsi il concorso, a Livorno, e divenni “conduttore”, ossia l’uomo che sta in treno senza essere il controllore».
Ed era questo quello che voleva?
«Nemmeno adesso so che cosa voglio. Io non mi sono mai accontentato di nulla. Il mio destino doveva essere la cucina. Intanto nel 1949 mi ero sposato. Avevo conosciuto Miranda dieci anni prima. Ne approfitto per dichiarare che non sono stato un marito irreprensibile. Ho tradito spesso quella gran donna di mia moglie».
Un dongiovanni?
«No, mai con altre donne. Col lavoro. Sempre e solo col lavoro. Ero tornato a Torino, ci rimasi quasi vent’anni. Avevo ripreso a cucinare nei ristoranti. Sempre in modo tradizionale. Ricordo una particolare zuppa di verdure che piaceva molto, si chiamava la giardiniera».
Solo che non le bastava più...
«Nel 1955 diedi un calcio all’elegante Torino, intuendo che la città del futuro era Milano. Torino per me era ormai piccola. Nel 1955 subentrai a un bar, nel 1957 aprii il mio ristorante. In via Donizetti».
Vicino al conservatorio.
«E infatti veniva la Tebaldi, Del Monaco... E anche i cantanti leggeri, la Zanicchi, la Cinquetti, chiaramente negli anni successivi. Cucina a base di carne: spezzatini, arrosti... ».
E il pesce?
«Arrivò quando dovetti lasciare via Donizetti, nel 1989. Grazie a mia figlia Tiziana e a mio genero, riuscii ad andare dove sono adesso. Il ristorante lo progettò Renzo Mongiardino, un architetto che aveva le mie stesse idee: ossia, anche le cose moderne non devono sembrare troppo nuove. E con lui siamo rimasti “in famiglia”: Roberto Peregalli e Laura Sartori Rimini, due suoi eccellenti allievi, mi hanno offerto la loro competenza anche per aiutarmi coi successivi progetti. Ossia, il Bistrot e l’Arengario».
In tema di progetti: ne ha ancora qualcuno?
«Londra. Vorrei andare a Londra. Finora ho fatto sempre quel che ho voluto, e ci sono riuscito. Ma in realtà nemmeno io so cosa voglio. Sono ancora un ragazzino».