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 2013  settembre 28 Sabato calendario

IL VERO AFFARE HA SEI ZAMPE

Per la nuova ondata di privatizzazioni il premier Enrico Letta sta chiamando a raccolta i grandi capitali esteri. Mentre i protagonisti della prima fase di vendite degli asset di Stato iniziata nel 1998 con il Credito Italiano erano stati gli investitori italiani, soprattutto i piccoli risparmiatori. Oggi i tempi sono cambiati: di capitali italiani disposti a investire nelle imprese italiane ce ne sono sempre meno e quindi queste ultime entrano nel mirino degli stranieri che le guardano con interesse. A partire da Telecom Italia che ora sta passando in mano spagnola. La compagnia delle tlc che allora era un fiore all’occhiello dell’Italia era stata messa sul mercato nel 1997, ma il suo destino in borsa non è stato felice. Un azionista della prima ora avrebbe subito una minusvalenza del 27%, nonostante i dividendi incassati. Emblematica anche la storia dell’Alitalia che oggi è partecipata al 25% da Air-France e Klm: proprio la compagnia aerea insieme a Sirti e Stet è stata una delle sporadiche operazioni di privatizzazione avvenute a metà degli anni 80.
Quando, l’ltalia, insieme alla Francia e al Regno Unito, intraprese il processo di vendita delle imprese di Stato. «Da allora l’ltalia ha ricavato più di 160 miliardi di dollari Usa e vanta il primato europeo, escludendo il Regno Unito, in termini di proventi ottenuti», spiega il centro studi Privatization Barometer. Ma le prime operazioni di grandi dimensioni furono avviate a partire dal 1992 per contrastare la profonda crisi finanziaria in cui versava il Paese, e che culminò in settembre con la svalutazione della lira e il processo accelerò ulteriormente sotto la spinte dell’Unione Europea. Il documento programmatico presentato nel 1992 dal primo ministro Giuliano Amato enunciava tra l’altro i quattro obiettivi del processo di privatizzazione: migliorare l’efficienza operativa delle imprese pubbliche, aumentare la competitività dei mercati, favorire l’internazionalizzazione del sistema industriale, ridurre il debito pubblico. Con gli stessi obiettivi Letta, ha varato Destinazione Italia, il piano del governo per favorire gli investimenti stranieri nel mercato tricolore. Con queste road map, «inizia un percorso di privatizzazioni», ha annunciato Letta, puntualizzando che le operazioni riguarderanno «cose che è giusto privatizzare, perché, non sempre privato è meglio del pubblico», come si è visto in esempi passati.
Se oggi Letta corteggia i grandi investitori internazionali con un road show che è partito nei giorni scorsi da Wall Street per continuare in ottobre come seconda tappa nei Paesi arabi, 20 anni fa Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, aveva riunito i banchieri e imprenditori sullo yacht della casa reale inglese, il Britannia, attraccato per l’occasione sulla banchina del porto di Civitavecchia per presentare alle investment bank il programma di privatizzazioni che sarebbe partito di lì a poco facendo leva proprio sul boom che Piazza Affari avrebbe vissuto dalla seconda metà degli anni 90.
«Una fase interessante è quella che abbraccia il biennio 1999-2000. Il collocamento di società pubbliche, e non solo, incontrò in quel periodo l’entusiasmo di un vasto pubblico, che si stava avvicinando alla borsa in modo non sempre consapevole. Erano quelli, infatti, gli anni della bolla speculativa e della corsa all’acquisto di azioni. In molti casi, i fortunati che riuscivano a ottenere i titoli, dato che le richieste erano sempre enormemente superiori all’offerta, realizzavano in pochi giorni elevati guadagni. Si pensi al caso di Acsm Como, collocata a 1,94 euro che, il primo giorno di quotazione, chiuse a 2,745, con una crescita superiore al 40%», spiega Silvio Olivero, responsabile dell’ufficio studi di Cellino e associati sim che ha elaborato per Milano Finanza i rendimenti ottenuti da un risparmiatore che avesse investito fin dalla prima ora nelle società privatizzate dallo Stato, compresi gli enti pubblici, dal 1993 a oggi, tenendo conto di capital gain e dividendi.
Ricorre infatti quest’anno il ventennale dal collocamento del Credito Italiano, che aprì nel 1993 la stagione delle grandi cessioni di Stato a Piazza Affari. Quando il Btp rendeva il 9%. Da allora lo Stato ha dismesso in parte o del tutto, privatizzandole, serietà per oltre 90 miliardi con offerte pubbliche a piazza Affari. Ma cosa ci ha guadagnato il risparmiatore che avesse investito nelle aziende di Stato al momento dell’ingresso in borsa? «La regina di tutte le privatizzazioni è stata certamente Eni che, considerando il primo collocamento avvenuto nel novembre del 2005 a 2,71 euro, ha offerto una performance positiva di oltre il 600%, pari all’11,7% annuo, dividendi compresi. Al secondo posto si colloca Autostrade, la cui performance dal collocamento (a 6,75 euro), pari al 339%, è il frutto di un rendimento annuo medio dell’n,3% dal dicembre 1999 a oggi. Di segno diametralmente opposto, invece, il giudizio su Telecom», sottolinea Olivero. Il titolo ha registrato un rendimento medio annuo dall’ottobre 1997 negativo per 1’1,93%. «Le perdite subite da chi partecipò a quel collocamento sono il riflesso della gestione assai lacunosa di quella che, nel momento in cui venne privatizzata, era una delle più grandi compagnie telefoniche d’Europa», aggiunge Olivero. Negativo anche l’andamento di Finmeccanica: dal giugno 2000 la società della difesa ha registrato un rendimento annualizzato per il sottoscrittore della prima ora negativo per il 10,52% (-77,25% ne1 periodo).
Solo in un caso su tre i collocamenti analizzati hanno offerto ai sottoscrittori un rendimento superiore a quello del mercato azionario italiano. A partire da Aeroporti di Roma (+ 39,03% annuo contro il 18,42% della borsa) che però è stata tolta dal listino nel 2001 a seguito di opa. «Le prime società ad essere privatizzate furono sopratutto banche. Nonostante il tracollo subito dal settore negli ultimi tempi, i rendimenti ottenuti dai sottoscrittori che a inizio anni 90 parteciparono a quei collocamenti risultano tutti positivi, anche se piuttosto deludenti se confrontati con quelli del mercato azionario italiano», dice Olivero. Nel 1993 e 1994 furono vendute tramite offerta pubblica tre delle maggiori banche del paese, Credito Italiano, Imi e Comit e la principale compagnia di assicurazione, l’Ina. Negli anni successivi la storia di queste realtà si è incrociata, così come nel consolidamento dell’industria bancaria sono poi entrati nella partita altri istituti arrivati in borsa con le privatizzazioni, come nel caso di Banca di Roma. Il Credito Italiano è stato quotato a dicembre del 1993 a 6,3 euro per azione. Chi ha acquistato le azioni allora oggi si trova in portafoglio un gruppo internazionale molto più grande. Oggi infatti Unicredit è il risultato della fusione di nove banche italiane, e delle successive aggregazioni con il gruppo tedesco Hvb e l’italiana Capitana (a sua volta un’evoluzione di Banca di Roma, privatizzata nel 1997). Per l’azionista della prima ora questa storia ha portato a una rivalutazione del proprio investimento del 2,41% annuo. Mentre Comit e Imi oggi si trovano nello stesso gruppo, nato dalla successiva fusione tra Intesa e Sanpaolo Imi. Chi ha investito nelle azioni Comit oggi quindi è azionista di Intesa e in questi anni ha visto il suo investimento valorizzarsi del 3,77% medio annuo. Mentre chi aveva comprato Imi ha registrato un total return annuo del 4,52%.
Passando dalle banche alle assicurazioni anche l’azionista di Ina della prima ora ha vissuto diversi passaggi e oggi si trova nel suo portafoglio azioni Generali. Dal punto di vista del total return mettere Ina in portafoglio ha reso il 2,2% annuo. Non può dirsi invece contento il risparmiatore che nel 1999 puntò su Banca Mps acquistando le azioni del gruppo senese a 3,85 euro. Da allora chi ci ha investito ha perso 1’87,58% nonostante i dividendi incassati, pari al -13,55% annuo.
Dal canto suo Enel è stata privatizzata in tre tranche rivolte al pubblico con la prima che è partita nel 1999, quando la società ha debuttato in borsa con il piazzamento sul mercato di quasi 4 miliardi di azioni pari al 31,74% del capitale sociale, per un controvalore record di 16,55 miliardi di euro (corrispondenti a 32 mila miliardi di lire). È stata la maggiore offerta pubblica in Europa e la seconda al mondo per valore e per numero di sottoscrittori. E oggi chi ha aderito a questa prima franche registra un rendimento medio annuo praticamente nullo.
Nel bilancio delle privatizzazioni italiane hanno un ruolo importante anche le utility ancora controllate da Comuni e Province, ma collocate in parte in borsa. Anche in questo caso, come per le banche, i matrimoni non sono mancati e il cassettista ora si trova titoli di società il cui perimetro è cambiato negli anni. Chi acquistò Aem nel 1998 oggi è azionista A2A e ha potuto contare su un total return medio annuo del 2,77%. Mentre Amga è stata quotata nel 1996 oggi fa parte di Iren (nata dalla fusione fra Eria, multiutility dell’Emilia Romagna, e Iride, multiutility di Torino e Genova). In questo caso l’azionista di Amga oggi ha una partecipazione in Iren e ha realizzato un rendimento totale medio annuo del 4,17%. Il terzo colosso utility è Hera e anche in questo caso è il risultato dell’incontro di più società. Infatti Hera, nasce nel 2002 dall’unione di undici aziende di servizi pubblici dell’Emilia Romagna, e continua negli anni successivi la crescita territoriale, acquisendo nel 2004 Agea di Ferrara e concludendo nel 2005 con Meta la prima fusione italiana tra multiutility quotate in borsa. I risultati per gli azionisti? Per chi ha Hera da 11 anni il total return è del 5,95%, per chi invece ha investito in Meta il total return è del 4,39%.