Enrico Mannucci, Sette 27/9/2013, 27 settembre 2013
GLI ORAFI CHE FECERO IL COLPO GROSSO
DELL’AMORE –
Che cosa resta addosso a Sofia dopo che lei, molto coreograficamente e sensualmente, si è tolta tutto davanti a Marcello (si parla della Loren e di Mastroianni, naturalmente, nella celeberrima scena dello spogliarello di lei in Ieri, oggi, domani)? Un filo d’oro con appeso un globo che sembra piuttosto una mina marina, con quelle specie di pungiglioni che sporgono da ogni parte. Fu una scelta stravagante di Vittorio De Sica, il regista, nel 1963, quando venne girato il film? Niente affatto. Perché negli orafi e nei gioiellieri scorre un’insospettabile vena civica, storica e politica. Così, la loro produzione, per molti anni dopo la Seconda guerra mondiale, è segnata dall’attenzione a esorcizzare l’incubo tremendo del conflitto trascorso: nei monili, i simboli bellici più terrificanti vengono trasfigurati, le mine decorate di pietre diventano “esplosioni di colore” invece che “di dolore”, e fra i braccialetti va moltissimo la versione “tank” che allude ai cingoli dei carri armati.
Si impara anche questo a visitare il piccolo museo di cui si è dotata, dal 1998, una delle maggiori aziende del settore, la capofila del distretto aretino dell’oro – sono tre in Italia, gli altri stanno a Vicenza e a Valenza Po – la Unoaerre, nome comprensibile appena si apprende che, nel settore, ogni ditta dispone di un punzone con cui identificare la propria produzione: numero progressivo e sigla provinciale, “uno”, quindi, e “Ar”, poi per Arezzo, ovvero sanzione chiarissima della primogenitura nella zona.
E s’impara anche molto altro. Volendo si può risalire per millenni indietro nel tempo, aiutati dalle spiegazioni di Giuliano Centrodi, storico aziendale e appassionato curatore dell’esposizione.
Un’arte che risale agli etruschi. Ci sono le tradizioni più antiche, quando al tempo degli etruschi Arezzo è una capitale dell’arte fusoria in bronzo; nel Medioevo, il blasone toscano passa a Siena dove s’inventano anche tecniche nuovissime in gara con gli orefici francesi; dalla seconda metà del Quattrocento, poi, il centro di riferimento diventa Firenze, con le sue “botteghe sperimentali” dove i maestri del Rinascimento si applicano a ogni possibile campo creativo: grandi nomi come Benvenuto Cellini o Maso di Bartolomeo (l’autore delle prime opere di oreficeria esenti da influssi gotici), entrambi, guarda caso, originari della Val d’Ambra che in buona parte è in provincia di Arezzo.
Più vicino a noi, nell’Ottocento, tipica di queste parti è la tradizione “chianina”, con le fedi nuziali e di fidanzamento fatte a petalo con una pietra centrale e altre incastonate attorno.
Per dire che non si avventurano in un territorio vergine Leopoldo Gori, senese, e Carlo Zucchi, aretino, quando aprono, nel marzo del 1926, un piccolo laboratorio per lavorare l’oro, in pieno centro cittadino. I due si sono già incrociati cinque anni prima, poi Gori (che ha un ingrosso di orologi e che è attento a raccogliere le polveri preziose residuato delle lavorazioni) ha messo su una società con un volterrano, ma il tentativo è andato male. Allora, torna da Zucchi, che già ha una bottega di orafo nell’attuale Corso Italia.
Entro poco tempo, negli Anni Trenta, l’azienda – che ha già una cinquantina di dipendenti – comincia a meccanizzare alcune produzioni: si fabbricano le catene a macchina e viene introdotta la tecnica dello stampaggio, così nascono i primi bracciali “a ghiandina” (ossia con gli elementi modulari che riproducono l’aspetto di una ghianda). Lo stile dei gioielli risente l’influenza dell’Art Déco, con le sue geometrie. Ma, intanto, bisogna anche fare i conti coi tempi politici. Arriva la campagna del regime per “l’oro alla patria”: le “donne italiane”, a partire da Edda, la figlia del duce, e dalla regina, donano alla nazione i loro gioielli, cominciando dalle fedi, sostituite da anelli in metallo vile. È l’occasione per l’unico cambio nel marchio della ditta: fondendo avanzi di vecchi gioielli, qualcuno si fa forgiare le “fedi fasciste”, dopo la tradizionale “1ar” ora il punzone imprime anche un fascio littorio.
E i rappresentanti vanno in giro coi campionari dei gemelli in rame, al massimo in argento. Stagioni documentate nel museo aziendale, accanto ai vecchi macchinari: il maglio verticale, detto anche “berta”, degli Anni 30, il pantografo francese degli Anni 40, le trafile, gli schiacciafili, i laminatoi, gli utensili per sbalzare, cesellare, incidere e incastonare, oppure i “ceppi” con il “cavaliere a espansione” per “mettere in tondo” gli anelli e gli attrezzi per i vari tipi di catene (gourmette, rolò, forzatina, veneziana, lumachina, pinzetta, cingolati, ossia i già ricordati “tank”). Siamo al dopoguerra, appunto, con la “mina” di Sofia o con le spilline “animalier” ispirate ai personaggi disneyani.
Il gioiello più amato. Al di là delle fedi nuziali che da sempre rappresentano un punto forte della ditta, il colpo grosso arriva – proprio in quel periodo – con il “gioiello democratico”. Unoaerre non ha il copyright dell’invenzione, che è francese; l’abilità grande è ottenere in esclusiva la licenza per commercializzare in Italia una placchetta-medaglia d’oro con inciso “+ di ieri – di domani”. Sarà un successo travolgente: diciotto milioni di pezzi venduti, non costeranno molto presi a uno a uno, ma il volume di fatturato è impressionante. Alcune riviste di settore individuano la “medaglia dell’amore” come l’oggetto di oreficeria più conosciuto del XX secolo. Sull’onda del trionfo, l’azienda arriva anche nella massima tribuna commerciale del tempo, Carosello. Ci vorrà un po’, anche se la prima richiesta risale al 1960 (con un protagonista già contattato, il cantante Memo Remigi), bisogna aspettare il 1963, quando viene abolita una legge che, fino a quel momento, ha proibito la pubblicità nel campo dei metalli preziosi. Su un altro versante, più elitario, a partire dagli Anni Sessanta, arrivano invece le creazioni di artisti plastici, come Bino Bini (coi “fiammiferi”) e Carmelo Cappello. A cui seguirà, nel corso del tempo, la collaborazione con tanti nomi importanti: da Dalí – di cui, all’ingresso dello stabilimento, è messo in bella mostra un detto: «L’oro invece di essere un oggetto materialista è un oggetto spirituale mistico » – a Emilio Greco, Pietro Annigoni, Giacomo Manzù, Francesco Messina fino a Giò Pomodoro che, una quindicina di anni fa, realizzò qui un’importante serie di pezzi unici adottando particolarissimi sistemi di fusione.
Intanto, l’azienda ha anche funzionato da zecca per un centinaio di Stati: le monete dal più alto valore facciale di Haiti e di Eritrea, per esempio, sono uscite da qui. Per non dire che, nel 1986, venne forgiata qui anche la spada – splendente, lunghissima, praticamente importabile – di cui si fregiava Saddam Hussein e che donava agli eroi della guerra contro l’Iran.
In quasi novant’anni, sulla scia della Unoaerre, è cresciuto un distretto dell’oro con oltre 1.600 marchi attivi. Una diffusa Fort Knox italiana che, in verità, ha poco del ridotto inattaccabile (non è un invito ai criminali, sia chiaro). Certo, imponenti porte blindate, sorveglianza elettronica e controlli ripetuti, ma poi non è che a San Zeno – qualche chilometro fuori Arezzo, dove lo stabilimento si è ora spostato – siano nascoste chissà quante tonnellate di lingotti: «Ogni anno ne lavoriamo quasi nove tonnellate, ma in deposito ne teniamo quanto basta alla lavorazione in quel momento. E, oltretutto, le scorte sono suddivise nei vari reparti», spiega Centrodi.
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