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 2013  settembre 28 Sabato calendario

LA VERSIONE DI CESARE

A vent’anni dalla prima privatizzazione, quella di Credit, due delle imprese chiave collocate sul mercato tornano a essere non solo un problema economico per il Paese, ma anche politico. È il risultato di errori nel percorso di quelle singole aziende o c’è un baco originale? Cesare Geronzi (nella foto), che di quegli anni (e non solo) è stato protagonista, scuote la testa, prima di rispondere: «Difficile dirlo, certo fa un effetto strano constatare che oggi, mentre il presidente del Consiglio è in giro per il mondo per convincere gli investitori a scommettere sull’Italia, il mondo politico, senza distinzione, cerca d’intimorire quegli stessi ambienti. Ma insomma, gli stranieri li vogliamo o no? E l’Italia è un’isola o sta in Europa? Se si dimentica tutto questo in nome di un populismo puramente elettorale, allora è inutile mandare il premier a cercare di vendere all’estero beni di cui non dispone».

Presidente, pensa al dibattito sulla modifica dei limiti per l’Opa?
Penso a tutto quello che sta succedendo, e naturalmente non sottaccio i problemi dell’instabilità e delle gravissime tensioni politiche. La Consob, che come al solito accende fari. Il governo, nell’incandescenza dei contrasti che sono esplosi a livelli istituzionale, che studia nuove leggi. La rete, che tutti scoprono solo ora essere strategica. Guardi, lo Stato, ovviamente, è libero di prendere tutte le misure che vuole a salvaguardia di ciò che ritiene importante per gli interessi della Nazione, ma quando tanti anni fa si è cominciato a parlare di privatizzazioni nessuno si è messo a pensare alle cornici giuridiche all’interno delle quali realizzare il percorso. E lo si vuol fare ora?

Troppo tardi?
Non è un problema di tempi, ma di filosofia. Non si può intervenire per legge allo scopo di modificare i rapporti tra gli azionisti. Ma è possibile che si sia scoperto ora che il 30% delle azioni è un limite troppo alto per l’obbligo di Opa? E che limite si vuole fissare? Il 22? Il 20? Il 15%? E su quale base si cerca la cifra? Lei l’ha capito? Io no. Allora, forse, dobbiamo fare un passo indietro.

Quanto indietro?
Torniamo all’inizio. Perché si è privatizzato? Per fare cassa, certo, ma anche perché si pensava, o si diceva, che bisognava fare in modo che il bene pubblico diventasse più efficiente, creasse ricchezza per il Paese. Ma una volta imboccata questa strada bisognava anche prevedere quali sarebbero stati gli effetti sul mondo del lavoro, quali investimenti si sarebbero resi necessari e così via. Occorreva definire compiutamente le regole prima di privatizzare. È singolare che un alto esponente abbia detto qualche tempo fa che, se si fossero prima varate le regole, non si sarebbero poi fatte le privatizzazioni. Un ragionamento inaccettabile. Si è privatizzato così, senza un quadro organico e senza una strategia di respiro. All’italiana.

Eppure non fu un processo semplice, si parlò di superholding, di fusione Eni-Iri, delle SuperBin, poi alla fine prevalse il modello Britannia.
Provo difficoltà a seguirla su queste semplificazioni. La realtà è che il processo di privatizzazioni ha avuto la vita difficile che conosciamo perché non è stato collegato a un analogo processo di liberalizzazioni. È la cultura del nostro Paese che non accetta le conseguenze inevitabili, a cominciare da quelle sull’occupazione e sui rapporti sindacali, che seguono al collocamento sul mercato di un’azienda. O il mercato è libero, ma ovviamente regolato, o è protetto. Cercare di avere il dinamismo dell’uno e le sicurezze dell’altro è impossibile.

Vale sicuramente per Alitalia. E per Telecom?
La vicenda di Telecom è una concatenazione di errori, a partire dal nocciolino duro, che si è liquefatto al primo problema, per proseguire con una scalata a carico dell’azienda, i cui effetti pesano ancora. Tutte mosse che forse hanno arricchito le persone, ma certo non il Paese.

Non tutte le privatizzazioni sono andate allo stesso modo.
Sì, certo, ma il problema di fondo rimane. Guardi, io sono sempre stato favorevole alle privatizzazioni e la mia vita di banchiere lo sta a testimoniare, ma anche io ho dovuto fare i conti con quel problema culturale di cui le parlavo prima. Quando guidavo la Cassa di Risparmio di Roma prendemmo dall’Iri il Banco di Santo Spirito e l’accordo che c’imposero fu il mantenimento dei livelli d’occupazione. Che in un’acquisizione è una contraddizione in termini, perché mette un limite al lavoro di razionalizzazione ed efficienza. Noi accettammo perché eravamo convinti della bontà del nostro progetto, ma per raggiungere quegli obiettivi abbiamo dovuto creare le condizioni perché si realizzasse nel sistema bancario un meccanismo di mobilità sul tipo di quello che già esisteva nel sistema industriale. Sto parlando della legge sugli esuberi. Che ripeto, nacque su sollecitazione del mondo bancario (con la partecipazione attiva delle forze sindacali), non certo per le preveggenza di chi aveva deciso di privatizzare le banche. E solo così è stato possibile tutto il successivo processo di aggregazione del settore. Naturalmente ricordo ancora con soddisfazione che le concentrazioni da me promosse sono comunque avvenute in un contesto di condivisione, per la parte di competenza, con le forze sindacali e i lavoratori.

Lei una volta ha fatto un riferimento all’accordo Andreatta-Van Miert, dicendo che tutto inizia lì, anche la crisi di ruolo di Mediobanca.
Quell’accordo nacque da una situazione di necessità, c’era la crisi economica, la crisi dell’Iri, la consapevolezza, da parte della politica, dell’inevitabilità del percorso di adesione alla moneta unica. Sulle modalità di quell’intesa, invece, si può discutere. Aver deciso che l’Iri doveva essere liquidato entro una certa data ha creato un’evidente distorsione del mercato. Chi vendeva aveva un limite temporale per farlo e di conseguenza chi comprava godeva di un vantaggio notevole. Ma al di là di questo, ripeto, nel merito non c’erano molte alternative. Però le cessioni, anche se obbligate, si potevano fare bene.

E qui è stato il limite di Mediobanca?
Nel processo di cessione delle Bin, era chiaro che Mediobanca, per tutti gli incroci che c’erano, e per la verità continuano a esserci, dovesse avere un ruolo centrale. Dirò di più, era inevitabile e anche opportuno. Ma sull’operato vale la regola del senno di poi.

E andando al di là di questa premessa?
Nella privatizzazione delle due principali banche dell’Iri, Comit e Credito Italiano, si seguì la regola del nocciolo duro, secondo la tradizione Mediobanca. Tutto cambiava perché potesse rimanere tutto come prima. Solo che la situazione era mutata sul serio e gli equilibri di prima non potevano più tenere, ed infatti Mediobanca ha perso Comit e ha perso il Credito e alla fine anche il suo ruolo centrale in ogni partita.

Mediobanca era dietro la scalata dei capitani a Telecom. Un tentativo di rientrare in gioco?
No, lì ha fatto la banca d’affari. Magari ci ha messo un po’ troppa euforia nel momento del successo, ma capita.

Le leggo un passaggio di Confiteor, il libro intervista che ha realizzato con Massimo Mucchetti. Lei scriveva: «In realtà, sulla gestione delle privatizzazioni va oggi riaperto il dibattito critico. Negli anni novanta, l’Italia si affidò a un mercato finanziario che non poteva funzionare bene perché venne sì riformato, ma secondo modelli contraddittori tra loro (_) e comunque applicati a metà. (_) Il Testo unico bancario dà alle banche la facoltà di acquisire partecipazioni, ma le banche commerciali italiane erano sottocapitalizzate e non potevano avere di colpo l’expertise di Mediobanca e Imi. Il Testo unico della finanza vorrebbe promuovere la contendibilità delle imprese, ma al tempo stesso lascia in piedi gli incroci azionari, le piramidi societarie e i patti di sindacato. E nell’affidare al puro mercato la selezione delle nuove proprietà delle aziende ex pubbliche non si è tenuto conto che il ribasso dei tassi d’interesse avrebbe reso possibile l’acquisto delle medesime finanziandosi con un ricorso al debito eccessivo che, poi, avrebbe soffocato le potenzialità di sviluppo delle imprese». Vuole aggiungere altro?
Che questa è la chiave del fallimento di un Paese senza capitali, con un mercato finanziario ristretto e la sostanziale assenza di investitori istituzionali; un Paese dove per acquistare le società sul mercato non c’è stata altra arma diversa dal debito, poi addossato alla società stessa privatizzata.

Si sono fatte le privatizzazioni per abbattere il debito pubblico, con il risultato che ora questo ha superato il 130% del pil e in più molte delle società privatizzate sono ora oppresse dai debiti. Non è un paradosso?
In ogni circostanza gli imprenditori italiani hanno cercato di privatizzare i guadagni e pubblicizzare le perdite. Anche in questa. Ma bisogna pure ricordare che il debito pubblico non nasce oggi, ma deriva da una cultura politica, che ha sempre voluto mantenere un welfare che ha pochi eguali al mondo, anche quando aveva capito che il costo era ormai insostenibile; deriva anche dai ritardi nell’affrontare le riforme di struttura. Oggi ci confrontiamo con i gravi problemi della produttività e della competitività; ma se si leggono le Considerazioni Finali di Antonio Fazio, già alla metà degli anni 90, si osserva come esse rappresentino una situazione identica a quella descritta oggi. Quali i progressi compiuti? Siamo sempre lì, a quella cultura di cui le dicevo. Tanto per restare al tema di oggi. L’ultimo salvataggio di Alitalia, ancora una volta a carico del contribuente. Tutti ricordano la speculazione politica del centrodestra e pochi rammentano che ad applaudire l’intervento della cordata tricolore era anche il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, attuale segretario del Pd.

La sua ricetta, allora?
Bisogna tagliare, tagliare e tagliare le spese. E di margini ce ne sono tanti. Ma dove li trova altri Paesi che alle imprese danno tanti incentivi, sgravi, aiuti come da noi? Chi sa camminare con le gambe sue lo faccia. Cominciamo da lì. Ognuno sia artefice del proprio successo. Contestualmente ai tagli bisogna, comunque, ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro e negoziare a livello comunitario la Golden rule per gli investimenti. Dobbiamo stare diversamente in Europa. Basta limitarsi al solo declamare la crescita. È necessario un piano organico a tal fine, che comprenda anche dismissioni regolate di beni pubblici. Ma tutto ciò è appeso alle sorti di questa legislatura, incombendo comunque gravi rischi se la situazione di confusione, di instabilità, di quasi assenza di prospettive dovesse malauguratamente prorogarsi.