Duilio Giammaria, Io Donna 28/9/2013, 28 settembre 2013
AFGHANISTAN, COSA RESTA DOPO IL RITIRO DEI MILITARI?
L’Afghanistan: in molti abbiamo dedicato anni della nostra vita a questo Paese. Nel 2001, all’indomani della caduta dei talebani, Kabul era una città prostrata, infinitamente povera, massacrata dalla guerra. I segni del cambiamento sono oggi visibili: le barriere di cemento antiesplosione che chiudono intere strade, i cartelli pubblicitari che vendono un’idea di modernità alla quale solo una parte della popolazione può accedere, gli edifici documentati da queste foto. Ma attorno a queste enclavi di “afgana modernità” l’agglomerato di case di terra cruda ha continuato a crescere alimentato da chi fugge dalle zone controllate dai talebani e dagli esuli rientrati da Iran e Pakistan. La capitale, con i segni di questa contraddittoria modernizzazione, è un’entità diversa dal resto del Paese, recluso in zone remote in cui le montagne ritagliano un puzzle di valli isolate l’una dall’altra, dove vive gran parte della popolazione. Il progresso in afghanistan è spesso solo una fragile patina facilmente cancellata dalla Storia.
Dei campi militari inglesi del 1842 quando conquistarono Kabul non c’è traccia, della città sovietica sopravvive il Macrorayon, una zona di palazzine scheggiate da mille esplosioni e pallottole, presto scompariranno anche gran parte delle basi militari occidentali.
Il paese profondo rimane distante, irraggiungibile persino da Amanullah Khan, il re che decretò la proibizione del velo per le donne, e dal cugino Zahir Shah. Entrambi cercarono di modernizzare la nazione, entrambi persero il trono per un colpo di Stato. La cittadella reale di quell’epoca, il cui scheletro crivellato dalla guerra ancora oggi si staglia in fondo al grande viale di Darul Aman, è un monito che ricorda i falliti tentativi di modernizzare l’Afghanistan.
Gli alti edifici di cemento armato cresciuti in questi anni imitano il nuovo mito urbano, quello di Dubai. I vetri bluastri, fragile schermo di modernità, già coperti dalla polvere che si alza quando il vento soffia giù dall’Hindukush, sembrano aspettare la scheggia o il proiettile di kalashnikov che li manderà in mille pezzi. È come se l’Afghanistan facesse solo finta di credere che il cambiamento portato dagli occidentali sarà duraturo.
Gli afgani hanno osservato, con un sorriso scettico, il racconto dei media e della politica internazionale descrivere un Paese in cui sarebbe bastato tagliare le barbe agli uomini e togliere i chador alle donne per diventare normale. Invece la guerriglia talebana si è ricostituita nelle vaste zone rurali dominate dai pashtun, il principale gruppo etnico, verso il confine con il Pakistan, ritagliandosi zone di montagne e valli che nessun occidentale potrà mai controllare.
Gli stranieri, tranne gli avamposti militari, hanno già da tempo abbandonato le province, concentrandosi a Kabul. Gli affitti all’inizio sono saliti a dismisura dai 15 ai 30 mila dollari, oggi cartelli di affittasi annunciano l’epoca del grande ritiro. I miliardi di dollari che sono arrivati in un Paese che solo pochi anni fa, sotto il regime talebano, aveva un bilancio di 80 milioni l’anno, hanno alimentato la dilagante corruzione che sta minando l’anima della società.
C’è tuttavia un successo indiscusso della cooperazione internazionale, l’educazione scolastica: oltre dieci milioni di studenti hanno accesso oggi a un qualche livello di educazione. Nella regione di Herat gli italiani della Cooperazione hanno costruito scuole o riabilitato centinaia di edifici adattandoli a centri di studio: tra questi ve n’è uno cui penso sempre con grande affetto, quello dedicato all’amica Maria Grazia Cutuli, una delle prime vittime della lunga guerra.
Ma le scuole, circa 16000 in tutto il Paese, sono ancora insufficienti e il 40% delle classi è composto di tende o baracche mentre la distruzione di scuole da parte dei talebani indica che anche questa conquista è sotto contante minaccia. tra i segni più evidenti del progresso , certamente ci sono anche le torri metalliche della telefonia mobile e non c’è afgano che non ricordi quel magico giorno del 2003 data in cui in un Paese ancora senza luce e acqua entrarono in funzione i primi telefoni cellulari.
Anche gli ospedali si sono moltiplicati, ma mamme e neonati continuano a morire di parto con uno dei tassi tra i più alti al mondo. La maternità dell’ospedale di Emergency nel Panshir, quella dell’Ospedale Esteghlal, e del pediatrico di Herat, entrambi riabilitati e sostenuti dalla Cooperazione Italiana, attraggono centinaia di puerpere che spesso viaggiano per decine di ore pur di arrivare in un luogo sicuro.
Gli aiuti italiani, inizialmente concentrati sulla complicata riforma della Giustizia, si allargarono all’assistenza nelle carceri, con la creazione di curiosi ibridi, per ospitare le donne fuggite dalla violenza domestica che per la legge afgana sono considerate colpevoli. Ufficialmente prigioni, in realtà ricoveri per donne e bambini. Per le più sfortunate, quelle che si danno fuoco pur di sfuggire a matrimoni combinati, spesso poco più che bambine, è stato creato un apposito braccio per le ustioni più gravi.
La gran parte dei fondi è stata destinata alla costruzione di impegnative infrastrutture: acquedotti, ponti, strade, aeroporti. Lavori costantemente osteggiati da una guerriglia talebana la cui propaganda ha sempre spacciato l’impegno occidentale come mezzo di penetrazione militare nel Paese, favorita dalla inevitabile confusione tra impegno militare e cooperazione civile.
Il caso della diga di Kajakai, la stessa costruita negli anni Cinquanta dagli americani, rappresenta il tipico paradosso dell’intervento occidentale: milioni di dollari investiti proprio nella zona dell’Helmand in cui americani e inglesi hanno subito le più gravi perdite.
l conto alla rovescia in vista della grande smobilitazione dell’anno prossimo intanto continua: gli Usa lasceranno il 40 per cento del materiale in dotazione all’esercito afgano, ma dovranno comunque ritirare 24 mila mezzi corazzati e 20 mila container a un costo che il Pentagono ha stimato in 7 miliardi di dollari.
Si comincia dunque a immaginare un Afghanistan quasi senza militari stranieri, le basi cedute all’esercito afgano, rimarranno solo qualche migliaia di soldati occidentali per garantire la formazione, ma anche in realtà per intervenire in caso la guerriglia talebana minacciasse la capitale.
L’Afghanistan tornerà presto a essere un Paese remoto che comparirà solo raramente sui giornali e in televisione. Cosa rimarrà di questi anni?
L’Italia, in compagnia di Francia, Giappone, Germania, puntano sul salvataggio e la valorizzazione dell’immenso patrimonio storico afgano. La tradizione archeologica italiana iniziata negli anni Cinquanta con Giuseppe Tucci è stata tenuta in vita da Andrea Bruno, l’architetto torinese che già per ben due volte ha salvato il minareto di Jam e che oggi è impegnato nel recupero della zona dei minareti di Herat.
Fondi italiani sono impiegati anche per salvare la memoria di Shahr-i-Gholghola, la vecchia cittadella di Bamyan, “La città delle urla”, così chiamata per ricordare le grida dei cittadini sterminati da Gengis Khan proprio davanti a quei Buddha che i talebani istigati da Al Quaeda distrussero nel 2001.
Se mai ci sarà una pace in Afghanistan questa sarà necessariamente una pace “all’afgana”, non come la immaginiamo noi. Da parte nostra potremo continuare a mostrare la nostra amicizia lasciando che il Paese decida la sua sorte. Ciò che resterà tra quelle valli e montagne è il profondo legame di chi come me continuerà ad amare questa meravigliosa terra.