Matteo Maresi, Rolling Stone 28/9/2013, 28 settembre 2013
THE DROWNING MAN
«Di giorno una frana la vedi. Ma di notte bisogna posizionare questi fari enormi nei punti che ti vengono assegnati e fare giri di ricognizione fino all’alba. Lo scorso autunno, sugli Appennini, abbiamo monitorato 700 smottamenti».
A parlare così è Matteo Cambi, quello che a 20 anni ha creato il marchio di abbigliamento Guru in un garage, a 26 girava a bordo di una Ferrari in compagnia di soubrette e paparazzi, a 32 veniva arrestato e a 33 stirava le t-shirt altrui in una comunità di recupero. Oggi, Matteo si divide fra il volontariato nella Protezione Civile, la famiglia e il nuovo lavoro, il primo stabile dopo una serie di impieghi precari: communication manager nel brand che lui stesso fondò. Un dipendente come altri. Classe 1977, emiliano di Carpi, Cambi racconta la sua parabola senza la retorica dell’ex bad boy, ma con un’educazione d’altri tempo. E non ha paura di umiliarsi, quando, nel bel mezzo dell’intervista, si ricorda che non è ancora un uomo libero: «Scusami un attimo, ma devo assolutamente chiamare il tribunale di sorveglianza».
Partiamo dai luoghi comuni che girano sul tuo conto: il primo è che per mettere in piedi Guru ti sono serviti i soldi (tanti) di mamma e papà.
A parte il fatto che mio padre è morto quando avevo 5 anni, la cosa è partita per scherzo, nel ’99, con Gian Maria Montacchini. Eravamo amici fin dall’adolescenza, lui gestiva negozi di abbigliamento a Parma, io allora lavoravo per mia madre a Carpi, nel suo vecchio maglificio. Abbiamo costituito una società con pochi milioni di lire, abbiamo creato il marchio, abbiamo prodotto un piccolo campionario di magliette e felpe. La moglie di Gian Maria faceva le grafiche, usavamo un garage come showroom, dove ci trovavamo nei ritagli di tempo, la sera.
Un altro è che basta avere gli amici calciatori per sfondare...
Il nostro rappresentante di Milano conosceva da anni Maldini, che si innamorò delle magliette. Poi arrivò Vieri, con cui legai anch’io. Mi dicevano: dammele, le metto. Le t-shirt piacevano perché si ispiravano al mondo surf, avevano i collettini piccoli al posto di quelli larghi tradizionali.
Che tipo di persona eri, nel 1999?
La stessa che vedi ora. Solare, amico con tutti. Uno tranquillo. Mi sono un po’ ritrovato, negli ultimi tempi.
Qual è stato il Big Bang di Guru, l’attimo in cui faceste il botto?
Una foto uscita sui tabloid nell’estate 2001, di questi giocatori fotografati in spiaggia con la margherita stampata sulla schiena.
Vuol dire che, dopo una foto sul giornale, partono le ordinazioni?
Vuol dire che da un giorno all’altro si esauriscono le margherite nei punti vendita e arrivano le richieste di riassortimento. Poi si esauriscono anche i riassortimenti e la gente va nei negozi a lasciare una caparra... Succede che, all’improvviso, devi fare delle scelte importanti, perché diventi un’impresa, e un’impresa seria va finanziata. È stato allora che mia madre e il suo compagno sono entrati nel progetto. Ci credevano.
Quando hai realizzato che la tua vita stava iniziando a correre un po’ troppo in fretta?
Nel 2004. Fino ad allora avevo tenuto botta. Guru continuava a crescere al ritmo di 15 milioni di fatturato all’anno, dovevamo pianificare al volo, scattavamo con LaChapelle e Terry Richardson, avevamo bisogno di spingerla, questa cosa.
Come lo hai fatto deragliare, questo treno?
Con l’uso fuori controllo della cocaina.
Quando hai cominciato?
Tardissimo, non mi ero mai fatto neanche una canna in vita mia, sono sempre stato molto attento alle regole. Ho iniziato per scherzo, così, per provarla. Una roba da classico venerdì di provincia...
Sei stato condizionato dal vippame?
Assolutamente no. Di solito in quel giro il più fatto ero io. Nei barettini di provincia ne gira il triplo, di roba. Lì è come se ti sentissi più protetto.
Dallo scherzo iniziale, che cosa è diventata, poi, la cocaina?
Una compagna di vita.
In quanto tempo?
Due anni. Due anni di uso quotidiano. All’inizio è un grammo che mi dura due venerdì, nascosto nei calzini, poi una volta alla settimana, poi un paio, poi io inizio a sbattermene se in ufficio ci sono anche i miei... Vedo che l’azienda va bene, che posso gestirmi il mio tempo, e comincio ad aggiungere serate in più al venerdì.
Che cosa cercavi?
La compagnia. Ho sempre fatto fatica a stare da solo.
Perché sei finito in carcere?
Bancarotta fraudolenta. Io avevo mollato e vivevo di rendita, il marchio faceva fatica a vendere, continuava a indebitarsi, e c’era chi mi faceva credere che il mercato non era ancora saturo. Ho avuto quattro anni di condanna, poco più del minimo previsto, perché tutti sono stati risarciti. Io mi sono fatto un anno fra carcere, domiciliari e comunità.
Quanto sei stato in cella?
Tre mesi. Sono arrivato una sera di metà luglio 2008, all’una di notte. Poi la mattina mi sono svegliato, mi hanno dato le lenzuola, un piatto, un bicchiere, una forchetta, e mi sono ritrovato in un cortile a camminare con gli altri detenuti, in silenzio.
Come hai fatto a non impazzire?
Prendevo molti psicofarmaci. Il SerT del carcere è intervenuto subito e mi ha preso in carico.
E l’astinenza?
Avevo pippato come un matto fino a due giorni prima, ma ero talmente scioccato che in quel momento la cocaina non era prioritaria. Terapia d’urto, il carcere mi aveva tirato via il pallino.
La comunità a che cosa ti è servita?
La cocaina ha questa cosa terribile, che è il ricordo di un momento piacevole. Tutto deriva da quel ricordo. Quello che ti scatta in testa è una memoria incancellabile di quel senso piacevole. La comunità aiuta a desiderare altro, cercando di non mettere in moto i meccanismi che possano ricordartela. Avevo a disposizione 10 sigarette e un caffè al giorno. Lavoravo nella lavanderia, una suora mi aveva insegnato a stirare. Ma soprattutto mi sono confrontato con la noia e con la solitudine.
Sei rimasto legato alla comunità?
Una domenica al mese vado ancora a dare una mano a un operatore con cui sono rimasto in contatto. Gli faccio compagnia nelle attività con i ragazzi.
Perché sei entrato nella Protezione Civile?
È la prima cosa che ho fatto dopo il terremoto in Emilia.
Dove hai lavorato prima di tornare in Guru?
Lontano dall’abbigliamento, ho compilato anche i bollettini per l’azienda di un amico che fa trasporti eccezionali. Che mi richiamassero in Guru era l’ultima cosa che mi aspettavo. Non ci volevo credere. Scusami ancora, ma devo richiamare il tribunale...
Ci sono problemi?
È per un’autorizzazione. Devo andare a trovare mia figlia al mare.
Quanti anni ha?
Sette. Con sua madre ci eravamo persi di vista, e ora siamo tornati assieme. E finalmente possiamo anche andare al mare.