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 2013  settembre 27 Venerdì calendario

EATALY È FATTA. ORA FACCIAMO GLI ITALIANI


SERRALUNGA (ALBA). Sin da piccolo, Oscar Farinetti soffre di un favoloso difetto della percezione: vede solo bicchieri mezzi pieni. Adesso ne ha davanti uno del suo Barolo autoprodotto. Ma non l’ha ancora toccato. Non sono dunque imputabili all’ebbrezza frasi come: «La crisi? Benvenuta! È un’opportunità per inventare. Mentre il benessere impigrisce». Oppure: «Tempo dieci anni, l’Italia non solo sarà fuori dal tunnel, ma Paese leader in Europa». Lo prego di ripetere. Però Farinetti è già oltre. «Per dire: oggi esportiamo 31 miliardi in agroalimentare? Bene. Devono raddoppiare. In tre anni. Si può. Porteremmo a casa 180 miliardi di euro, creando 2 milioni e 200 mila posti di lavoro».
Scalpita, affabula, filosofeggia, erutta cifre, ricette, soluzioni a portata di mano o più pindariche. Dipendesse da lui, comincerebbe a riassestare lo sciancato sistema-Paese già dopopranzo. A quanti insinuano che – fibrillato dalla riuscita di Eataly – stia scaldando i motori per buttarsi in politica, risponde: «Macché. Gli italiani ne hanno piene le scatole di imprenditori di successo che scendono in campo. Che ognuno resti al proprio posto. E poi finiamola di ridurre la politica al Palazzo». Cita il Caso di Eataly Roma nell’ex Air Terminal Ostiense: «Che fu costruito per i Mondiali del ‘90. Costo: 115 miliardi di lire. Venne utilizzato per 37 giorni. È rimasto chiuso per vent’anni. Faceva spavento. Noi ci abbiamo puntato su 80 milioni di euro, dando lavoro a 500 giovani e rilanciando un quartiere. Per me questa è politica».
Per lui è politica anche la mistica del vino professata dai 12 produttori con cui si intrattiene nell’ultimo libro Storie di coraggio (scritto con Shigheru Hayashi, enogastro-manager, e suo socio nella conquista del Giappone). Un viaggio dalla Val d’Aosta alla Sicilia, «in compagnia di dodici grandi sofisticatori». Prego? «Se per sofisticatore si intende uno che aggiunge altro a un prodotto, loro iniettano nell’uva se stessi, la caricano di valori immateriali, passano la vita a inseguire un sogno: il vino perfetto. Visionari». Già, ma a proposito di coraggio: ci vuole una certa audacia a riparlare di vino in un Paese dove – dall’oggi al domani – troppe persone che ci erano care si sono trasformate in eno-snob infrequentabili. «Allude a quelli del calice rotante?» Loro. «Fighetti» minimizza Mister Eataly. A lui certa gente non interessa. In compenso, ha tutto un suo pantheon di «fighima-pazzèèèschi». A cominciare da Gesù. Ne farà il testimonial di un’imminente campagna. «Perché è il più figo di tutti. In genere lo associamo ai digiuni che, sì, son cose bellissime, preghiere del corpo. Ma lui era pure uno da banchetti. Ti trasformava l’acqua in vino, moltiplicava pesci a tutta birra. Mica è un caso che per perpetuare la specie il Padreterno abbia inventato due piaceri: cibo e sesso». Figo è anche Bergoglio («Un papa che appena eletto si presenta al mondo dicendo Buonasera è un genio del marketing») e persino il non più plebiscitario Obama. Che, però, a Eataly New York non si è ancora manifestato. «Da Bloomberg a Clinton, sono venuti tutti: con Barack la faccenda è più complicata. C’è la questione sicurezza». Per dirimerla, Farinetti s’è riunito con quelli dell’intelligence Usa e su quattro foglietti gli ha scarabocchiato il suo piano di security. Senza convincerli. «Per ricevere Obama dovrei tener chiuso Eataly tre giorni. Con quello che mi costa l’affitto a Manhattan non posso permettermelo». Gli yankee saranno fighi quanto volete «però, in fatto di controlli, possono essere diecimila volte più burocratici di noi». E in quelli come Farinetti il solo vocabolo burocrazia scatena impetuose crisi d’asma.
Ok le regole («Dovremmo rendere sexy l’onestà»), ma un mucchio di cose gli vanno strette. Non è mai stato iscritto a Confindustria. Detesta tutte le Feder-qualcosa: «Altro che corporazioni, in questo Paese dobbiamo fare reteee!». Calma. «Vabbè, ma i francesi hanno due enti di controllo, perché noi dieci?». In barba alla dogmatica dell’etichetta, ha chiamato un suo Barolo NoName: «Vengano pure ad analizzarlo. Scopriranno che è ineccepibile». La recente apertura di Eataly Bari è stata inceppata dalle cartacce amministrative e da quei seccatori dei sindacati? «Ma ora è tutto a posto».
Risanare. Raddrizzare l’Italia come la Concordia – tanto per ricorrere a una metafora poco solcata. Gli argani? «Turismo, moda, design, cultura». Oltre – va da sé – a cibo e dintorni. Cioè i giacimenti che hanno fatto di Oscar Farinetti un food tycoon, l’Howard Hughes della gola. Con 12 punti vendita, presto 16, in Italia e quasi altrettanti avviati o in progetto un po’ ovunque nell’orbe, la sua Eataly è adesso un eldorado da 300 milioni di fatturato, 25 milioni di clienti l’anno, 3 mila dipendenti – benché ormai faccia infinitamente più chic chiamarli collaboratori. L’ammiraglia della flotta Farinetti veleggia salda nella crisi. E pensare che nacque da una crasi. Nei primi anni Duemila lui aveva venduto – agli inglesi del colosso Dixon, per 530 milioni di euro – il suo impero precedente, la catena di elettronegozi Unieuro, e si scervellava per trovare il nome della nuova creatura. Finché una segretaria non gliela buttò lì: «In inglese, eat e it si pronunciano allo stesso modo. Oscar, perché non fa la crasi?» E voilà.
Eataly è un’impresa bicipite: distribuzione/produzione. Vale a dire che il 75 per cento di quello che trovate in vendita, Farinetti lo acquista, il 25 lo fabbrica lui. Possiede otto aziende agricole, partecipa al capitale di altre undici. Nel 2008 s’è comprato dal Monte dei Paschi, che li aveva un po’ trascurati, i tenimenti di Fontanafredda, zona Serralunga d’Alba. Era la proprietà che Vittorio Emanuele II aveva sganciato alla sua maîtresse publique, poi moglie morganatica. Rosa Vercellana. Nata contadina, morta contessa. Di Mirafiori e Fontanafredda, appunto. Ora una novantina di ettari, all’epoca 122. Il re ci veniva a caccia. Anche di villanelle. «Hi-hi! Magari le rincorreva proprio qua sotto...» sghignazza Farinetti facendo strada nelle segrete del palazzo. Da queste cantine escono ogni anno un milione di bottiglie. «Di vino libero. E pulito». Cose tipo eliminazione dei concimi chimici, soppressione dei diserbanti, lotta ai solfiti... Mister Eataly te le racconta come travolgenti campagne napoleoniche. E quasi si commuove spiegandoti il prodigio dei dissuasori sessuali, ossia l’ultimo ritrovato per dire sciò ai parassiti, ma con garbo pacifista: «Non li i sterminiamo, non li i castriamo: gli impediamo solo di riprodursi, inducendoli all’autoerotismo».
Quella del parassita gentilmente accompagnato verso il sesso solitario è soltanto una delle sconvolgenti realtà a cui Farinetti mi introduce in qualche ora di conversazione itinerante attraverso i possedimenti di Fontanafredda. Oggi nella tenuta ha organizzato una festa della vendemmia open door. Aggirandosi per la sagra made in Eataly, stringe alcune tonnellate di mani. Appartengono a persone che mi vengono presentate come Il più grande produttore di bollicine del Piemonte, il migliore pastaio di Gragnano, il top mondiale della robiola... Ma il patron si lascia avvicinare da chiunque. Incluso un bimbo di anni nove che avanza verso di lui, occhi trasecolati e ditino proteso alla ET: «Ma lei... Lei... È l’inventore di Eataly...».
L’avrete capito: Oscar Farinetti appartiene a quella corrente di pensiero secondo cui, nel suo futuro postindustriale, l’Italia non può che reinventarsi come maxi parco delle delizie. Una repubblica fondata sul piacere. «Siamo lo zero virgola ottantatre per cento della popolazione mondiale, ma il rimanente 99,17 dei terrestri ci adora. Vuole godere di noi». Perché respingere questo popo’ di avance? «Eppure lo facciamo. Si rende conto di come accogliamo gli stranieri? In Francia entri al ristorante e ti dicono Bonsoir. Da noi: Ha prenotato? Oppure metti un giapponese che atterra a Fiumicino e sul treno per Roma gli scappa da pisciare. Deve tenersela fino in città. A bordo, tutte le toilette fuori uso. Lei ha mai viaggiato sulle ferrovie giapponesi?». Non ancora. «Beh, hanno i water con lo spruzzino. Quello che quando hai finito ti fa pure il bidè». Un altro mondo è possibile.
Classe 1954, Oscar Farinetti ha cominciato in un angolo del supermcrcato di papà (nenniano, da resistente fu il favoleggiato comandante Paolo della 21ª brigata Matteotti). Venticinque metri quadri con impilate dentro «sei lavatrici, tre cucine, due frigoriferi, qualche radio e tv». Parliamo del 1978. Una ventina d’anni dopo, la sua Unieuro era quella degli spot georgici in cui Tonino Guerra, poeta, ululava L’ottimismo è il profumo della vita! Per convincere il bardo a prestarsi, furono necessari sei pellegrinaggi in Romagna. Solo al settimo Guerra capitolò. Farinetti gli aveva infilato nel taschino un assegno da 100 milioni. Ma aveva già la testa altrove. In una civiltà saturata, murata di elettrodomestici lui grattava sulla parete «cercando una breccia: la trovai nel cibo. Di cui in questo Paese non sappiamo un tubo». Ma se non si parla d’altro? «Chiacchiere. Mi dica la differenza tra grano tenero e duro». Boh. «Quante sono le varietà di formaggio in Italia?». Sentiamo. «173. E i vitigni autoctoni?» Me lo confessi. «Quasi 500». Farinetti va matto per la società dei consumi e deve tutto alla modernità dell’automazione, però si chiama fuori da un’idea di progresso «che ormai non migliora più la vita delle persone, ma distrugge solo il lavoro vivo». Ciò non gli impedisce di essere estimatore e amico di Sergio Marchionne: «Non è un rude, non ce l’ha coi sindacati. Forse ha commesso qualche errore comunicativo. Ma pure io mica le ho azzeccate tutte».
Non si direbbe. Da ragazzo vinse al Totocalcio 5 milioni 300 mila lire. In seguito stregò il popolo dell’elettrodomestico con astuzie d’ogni risma. Compresi i pesci rossi. Li importava dalla Cina. A vagonate da 10 mila a botta. «Arrivavano ibernati. Noi li si rianimava». Per regalarli ai ragazzini che entravano nei negozi. «Poi però il mangime e la boccia in cui metterli glieli vendevamo». Farinetti aborre la decrescita. Crede nel Bio ma la parola non gli piace («Sa di medicina, trasmette un’idea di sacrificio, sofferenza»). Non ha mai commissionato un’indagine di mercato: «Perché sbagliano quasi sempre. Ma poi devi seguirle e pagarle lo stesso». Stravede per la lentezza, ma ha distrutto una Kawasaki 650 e una Porsche Cayenne. Vedendosela bruttissima. «Da allora ho molto rallentato». Fuma tra due e venti sigarette al giorno. Ha un cellulare di tot generazioni fa. Non guarda le email, se le fa leggere dagli assistenti. In vita sua non ha mai messo piede in un negozio per comprare alcunché. Fa tutto la moglie Graziella. Negli store degli altri lui ci entra solo per studiare, carpire idee. Pare che, in passato, si piazzasse di notte a spiare i punti vendita della concorrenza con binocolo a raggi infrarossi. Si muove in Bmw. In Francia ha «una casetta e una barchetta». Nel gruppo Eataly si fanno utili ma non si distribuiscono i dividendi: il quattrino deve girare.
Oscar Farinetti non cerca la politica. Se non altro perché è ormai la politica a cercare lui. Mentre furoreggia la festa della vendemmia, riceve un sms di Fassino e uno di Bruno Vespa («Fa un vino mica male. Comunque molto meglio della sua trasmissione»). Poi lo chiama Renzi. Mister Eataly gli dice: «Matteo, basta coi numeri. Gli italiani hanno capito che li sai. Adesso insisti sui comportamenti!». Con l’ex rottamatore, ora asfaltatore, è stato endorsement a prima vista: «Farà un buon casino. È un tenero ragazzo, un po’ fantozziano, ma lontano dal denaro e dal culto dell’io. Non gli ho dato un soldo. Anche perché non me li ha chiesti».
Teodicea Eataly. Ma Farinetti guarda già oltre. Il futuro? Sta compresso in un puntino. Il bosone di Oscar. Un «pisello verde» che lui porta ricamato sul polsino. Sarà il contrassegno di quello che venderà in «uno spazio torinese di 12 mila metri quadrati. Tre piani: 1) veicoli – auto, bici, scooter; 2) abiti; 3) furnitures – mobili e affini. Tutta roba italiana di rispetto, sostenibile e raccontata come da Eataly. Spiegando da dove arrivano lane, vernici, come vengono pagati gli operai...».
Altri capriccetti? «Un autogrill. Di quelli a cavalcavia. Ma senza gratta e vinci. Perché l’idea è che se ti fermi lì vinci sempre: mangiando e bevendo da dio». Non può dirmi di più. Ci stanno lavorando. Torniamo fuori per una sigaretta. Però il vecchio portone sabaudo non si apre. Pare stanco di farlo. Di obbedire. Breve wrestling di Farinetti col catenaccio. Lo scuote, lo smuove imprecando tra i denti. Ma niente. È l’unico frangente in cui lo colgo arreso. Ma già marciamo verso un’altra uscita. «Dio quanto odio tutte le cose che chiudono. Chiavi, serrature, lacci... Infatti guardi...» dice indicandosi i mocassini.
Marco Cicala