Francesca Nunberg, il Messaggero 1/10/2013, 1 ottobre 2013
I VOLTI DEL 16 OTTOBRE 1943
LA MEMORIA
«Accadono a Roma cose incredibili: stamani gruppi di fascisti, dicono insieme a qualche militare tedesco, hanno preso degli ebrei di ogni età e sesso e li hanno portati non si sa dove. Il fatto è certo, le modalità no». A scrivere queste parole sul suo diario, la mattina del 16 ottobre ’43, è un uomo che mai si sarebbe aspettato di fare qualche ora dopo la stessa drammatica fine: l’ammiraglio fascista Augusto Capon, croce di guerra al valor militare nella prima guerra mondiale, ebreo, che quel giorno venne preso assieme agli altri nonostante fosse semiparalizzato e nonostante la lettera di encomio di Mussolini che provò a mostrare ai tedeschi; morì ad Auschwitz sette giorni dopo.
Anche la sua foto sarà quindi tra “i volti del 16 ottobre”, gli ebrei di Roma vittime del più grande rastrellamento avvenuto in Italia ad opera delle SS. E per la prima volta saranno esposte le immagini dei deportati, circa trecento, quelle che gli organizzatori sono riusciti a recuperare con un lavoro certosino tra mille archivi, da quello tedesco di Bad Arolsen a Yad Vashem a Gerusalemme, dalla Comunità ebraica a questure, prefetture e soprattutto testimonianze familiari. Foto scattate in momenti felici, o già infelici ma con un sorriso prestato all’obiettivo, vacanze al mare, gruppi di famiglia, matrimoni; una quarta elementare di bambine col fiocco azzurro, tre quelle quali (Rina Di Veroli, Fiorella Frascati, Italia Tagliacozzo) prese quella mattina; i fratellini Bruno e Lazzaro Moscato, 4 e 5 anni; Alberta Di Porto, 1 anno, col vestitino della festa; la famiglia Terracina-Spizzichino affacciata al balcone; i fratellini Rina e Adolfo di Veroli sulla spiaggia con il secchiello.
LUTTO NON ELABORATO
Sono passati settant’anni da quel “sabato nero” (titolo di uno dei pochi libri sull’argomento, quello del giornalista americano Robert Katz del ’73; l’altro, “16 ottobre 1943” di Giacomo Debenedetti uscì nel dicembre del ’44) e adesso finalmente una grande mostra in allestimento al Vittoriano racconta cosa fu quella giornata per gli ebrei di Roma, per Roma tutta, per il Paese. «Fu soprattutto una ferita dolorosa e mai rimarginata per la Capitale, un lutto non elaborato - spiega il curatore scientifico, lo storico Marcello Pezzetti - che toccò profondamente tre parti della società: le vittime ovviamente, e quindi la minoranza ebraica che tanta parte aveva avuto nella storia del Risorgimento; gli altri, ossia gli italiani, tra i quali ci furono sia i collaborazionisti che coloro che aiutarono a rischio della vita; la Chiesa che non si sapeva se sarebbe intervenuta per fermare il massacro. Oggi la presa di coscienza e la necessità di tenere viva la memoria faranno sì che il 17 ottobre organizzeremo un grande convegno proprio all’Istituto storico germanico. Ma l’importante è che per la prima volta si possano guardare in faccia le vittime, e questo può toccare le coscienze. Abbiamo dato un volto a circa il 30% dei deportati del 16 ottobre e naturalmente il nostro lavoro va avanti, chiediamo a chiunque abbia foto, carte, materiali, di farsi avanti».
VERSO IL LAGER
Piove alle 5,15 del mattino quando i nazisti invadono le strade del Portico d’Ottavia e cominciano una spietata caccia all’uomo. La città è stata divisa dall’ufficiale tedesco Theo Dannecker in 26 “zone d’azione” che comprendono anche Trastevere, Prati, quartieri periferici. Quando alle 14 la retata finisce, 1.259 persone sono ammassate al Collegio militare di via della Lungara, dopo alcuni controlli ne restano 1.022. «Il numero non è preciso - spiega Pezzetti - potevano essere 1.020 o 1.024, c’era la donna cattolica salita col marito e forse fatta scendere, l’infermiera che non voleva abbandonare l’anziano che assisteva, il bambino nato in quelle ore...». Il 18 ottobre vengono caricati sui vagoni alla stazione Tiburtina, il 23 arrivano nel lager. La maggior parte muore durante il viaggio o subito dopo nelle camere a gas; sopravvivono alle selezioni ad Auschwitz 149 uomini e 47 donne; tornano in 16 tra cui una sola donna, Settimia Spizzichino, morta a Roma tredici anni fa. Due uomini sono ancora in vita, Enzo Camerino che abita a Montreal e Lello Di Segni, romano, classe ’26, che sarà l’ospite d’onore all’inaugurazione della mostra.
«Ma la retata dal punto di vista dei persecutori fu un insuccesso: l’obiettivo dei nazisti, che non parlavano italiano e si presentavano alle porte col famigerato foglietto di istruzioni (che sarà in mostra) era quello di rastrellare ottomila ebrei, ma appena la metà viveva nel ghetto. Si sono sopravvalutati, solo il commando di Dannecker aveva esperienza di questo genere, avevano fatto il Vel d’Hiv, la retata al velodromo di Parigi nel luglio del ’42, gli altri erano gli uomini di Kappler, la polizia di sicurezza, i riservisti: in tutto 365, ma diciamo così, poco esperti». Al Vittoriano ci saranno quaderni di scuola, giocattoli, bigliettini gettati dai vagoni piombati, video di testimonianze, i quadri di Aldo Gay, artista che disegnò la retata, di cui non esistono immagini filmate. La mostra comincia con i nomi delle vittime che scorrono su una parete luminosa e finisce con i volti.
Francesca Nunberg