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 2013  ottobre 01 Martedì calendario

FRANCA RAME MARZIANA A ROMA


A svegliarla nel cuore della notte fu un gran baccano di trombe, tromboni, sassofoni e grancassa. Roba da far tremare i vetri di casa. Franca Rame si precipita alla finestra, giù in cortile un gruppo di forsennati ci dà dentro a suonare Ma che aspettate a batterci le mani?: «Dario, è la nostra canzone di teatro!», grida al marito che l’ha raggiunta e la abbraccia. Altre finestre del palazzo milanese di Porta Romana si schiudono, qualcuno inveisce contro quei matti fracassoni, i bravi musicisti della Banda degli ottoni a scoppio, con tanto di clown danzanti con nacchere e tamburelli. «Credo stiano suonando per te — le sussurra Fo —. Vuoi vedere che ti hanno fatto senatrice?». Ormai del tutto desti, i vicini di casa applaudono e qualcuno grida: «Complimenti Franca, ce l’hai fatta!».
Cominciò così, come una festa, l’avventura di Franca Rame al Senato. Ma l’allegria durò poco. Quel che l’aspettava nei successivi mesi, dall’aprile del 2006 al gennaio 2008, era la discesa nei gironi di un purgatorio per molti versi simile a un inferno. O, se preferiamo dirlo con Flaiano, un destino da Marziano a Roma. Un’odissea nei gorghi più oscuri e infidi della nostra politica da lei registrata puntigliosamente in un diario, ripensato e meditato negli anni successivi alle dimissioni e a cui ha lavorato fino al giorno prima di lasciarci per sempre, il 29 maggio scorso. In fuga dal Senato (Chiarelettere, pp. 310, 13,90) risulta così una testimonianza postuma, un messaggio estremo di sdegno e impegno di un’attrice, grande non solo per doti teatrali, coautrice dei testi di Fo, ma per quel suo spendersi generoso in nome della giustizia, della libertà, del rispetto tra gli uomini.
Entrata nella «stanza dei bottoni» nelle file dell’Italia dei valori, Franca pensava di poter incidere in alcuni di quei temi che più le stavano a cuore: gli sprechi della spesa pubblica, l’inquinamento criminale di certe industrie, le conseguenze devastanti dell’uranio impoverito. Battaglie in cui lei si getta anima e corpo, scontrandosi regolarmente con i muri di gomma dell’indifferenza e dell’omertà.
Il Senato si rivela in fretta per lei un luogo di cattivi incontri. Prevedibili e non. Come quello con Marcello Dell’Utri, che aveva querelato lei e Dario per una stoccata ricevuta ne L’anomalo bicefalo («È un grande collezionista di libri antichi. Quando sono sporchi li ricicla tutti») e ora come collega le sorride. Le si avvicina, le bacia la mano sussurrandole: «Non si preoccupi per il milione di euro di danni che ho chiesto per diffamazione». «Non siamo affatto preoccupati — gli risponde —. Si preoccupi lei piuttosto. Quel processo lo vinceremo noi». Difatti nel 2013 Dell’Utri lo ha perso e ha dovuto pagare anche le spese.
Sorrisi e inchini anche da Andreotti. Nemico storico della coppia dai tempi de Il dito nell’occhio e Canzonissima, il vecchio Giulio la apostrofa benevolo con un «Cara piccina», la ringrazia per i tentativi di mediazione durante il sequestro Moro. Ma alla domanda perché non avessero trattato con le Br, risponde che lo Stato non poteva mettersi sul loro piano. «Nella politica la forma è tutto», spiega. «Sì — ribatte Franca — ma per la forma è stato ucciso un uomo». E Andreotti allarga le braccia.
Anche le donne la deludono. Femminista da sempre, Rame cerca di stabilire legami con le poche senatrici di sinistra. Ma Anna Finocchiaro per un anno intero neanche la saluta. E da Livia Turco, allora ministra della Sanità, «mai un cenno, mai un sorriso». Franca la avvicina per sottoporle il caso dei bambini di Taranto afflitti da sindrome da fumatore incallito per via delle polveri dell’Ilva. Ma l’interpellanza cade nel vuoto. E quando le segnala la drammatica vicenda di un altro bimbo di Firenze affetto da grave patologia, Turco la allontana con un gesto di fastidio «quasi fossi una mosca». «La prego — insiste Franca — pensi se fosse un suo nipotino». «Non ho nipoti», ribatte secca Turco.
Qualche volto amico, come quelli di Furio Colombo o di Sergio Zavoli, la rinfranca, ma non basta ad alleviare il senso di estraneità che sempre più l’attanaglia. In Aula quando elenca implacabile gli infiniti pubblici sprechi: per lo smantellamento mai eseguito di impianti nucleari, per il rifinanziamento di «missioni di pace» che portano solo morte, per gli stipendi stellari di manager di Stato. Incontrollabili anche spese del Parlamento: pranzi pantagruelici, montagne di carta igienica, perfino una partita di collari per cani…
Nell’indifferenza generale denuncia le assunzioni di raccomandati di ferro: il figlio del viceministro dell’Economia Baldassarri, la nuora di Gustavo Selva, la nuora del ministro dell’Ambiente Matteoli… Come pure le consulenze esterne, vedi quelle affidate allo studio Previti. E via sperperando. Comprese le statue falliche fatte comprare con soldi pubblici dal presidente uscente del Senato Pera, opere di artisti amici. Tra gli sprechi più insultanti quelli degli stessi onorevoli, termine che Franca usa con evidente sarcasmo. Quando riceve la prima busta paga, scopre di guadagnare 15 mila euro al mese più 150 di rimborso parrucchiere. «Troppi soldi. Mi fanno arrossire». Decide di devolvere lo stipendio a famiglie bisognose e invita i colleghi a rinunciare a metà compenso. Proposta che torna indietro come «una pallina di squash». Almeno pagassero i «portaborse», voce per cui ogni senatore percepisce 5.000 euro. Tutti li hanno e tutti gli allungano in nero poco più di una mancia. Il resto finisce nelle loro tasche. L’illegalità è in vigore persino alla buvette. Niente scontrino per il caffè. Perché? Non è elegante.
Si sente sola Franca. Sola e isolata. «Mi manca la vita reale, la mia famiglia e Dario. Mi manca la sua voce, la sua gentilezza, il suo amore».
Alla fine l’unica soluzione è andarsene. «Che ci faccio io su questa nave dei pirati?», il refrain che costella il suo diario. Nella lettera di dimissioni parla di «istituzioni impermeabili e refrattarie a ogni proposta», di un «Senato frigorifero dei sentimenti».
La festa che aveva salutato la sua nomina è lontana. Così come gli allegri echi della Banda degli ottoni a scoppio. Che tornerà a salutarla solo quando Franca si dimetterà anche dalla vita. A quel suo funerale «in rosso», dove tutta Milano l’ha accompagnata sulle note dell’altra sua canzone preferita: Bella ciao.