Paolo Madeddu, Rolling Stone 28/9/2013, 28 settembre 2013
RITA PAVONE
Nel 1962 vinse un “talent” dell’epoca, il “Festival degli sconosciuti”: ottenne di incidere un singolo per l’etichetta che l’aveva bocciata. Si chiamava La partita di pallone. Vendette un milione di copie. In un lampo, la giovanissima torinese figlia di un operaio Fiat divenne la star ragazzina che dilagava da ogni parte, dalla radio alla tv, al cinema: persino Umberto Eco tentò di capire il fenomeno inApocalittici e integrati. Nel 2005, dopo 32 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, compresi gli Usa, Rita Pavone annunciò il ritiro. Ora ritorna con Masters, un album affatto scontato: 15 cover di brani non celeberrimi, cercati vicino alle radici del pop e del rock americano, e le loro versioni italiane, realizzate con l’aiuto, tra gli altri, di Enrico Ruggeri e Dario Gay. «E un ritorno alle origini, il disco che ho sognato di fare per 50 anni».
C’è molta America nella sua carriera. Dai suoi idoli di ragazza alle incisioni Oltreoceano. Un amico di mio padre lavorava nelle navi e mi portava dischi che in Italia sarebbero arrivati anni dopo: Fats Domino, Eddie Cochran... Ascoltavo canzoni che i miei coetanei nemmeno conoscevano.
A che cantanti si ispirava? A sconvolgermi fu Brenda Lee. Poi ho molto amato Bobby Darin, uno che sapeva adattarsi a qualsiasi genere ed essere sempre credibile. E Timi Yuro, italoamericana con una voce nerissima.
Ma Elvis? Lo ha anche incontrato. Come andò? Per me era un essere di fantasia, non pensavo esistesse davvero. Ero negli studi Rca a Nashville a registrare con Chet Atkins e Floyd Cramer. A un certo punto ho sentito fare il nome “Elvis” e ho chiesto alla traduttrice: “Parlano di chi penso io?”. Pregai tutti di farmelo conoscere, ma il colonnello Parker era contrario.
Perché? Non voleva che fosse deconcentrato durante le registrazioni. Gli dissero che “la bambina” ci teneva tanto, che ero già stata tre volte all’Ed Sulliwan Show. E così a mezzanotte arrivarono i Jordanaires, poi il suo fonico personale, poi Parker che sembrava Alfred Hitchcock in bello... Infine lui. Era proprio bello, ancora magro, portava Ray-Ban gialli, aveva ciglia lunghe e basettoni. “You’re the italian girl”, disse. Mi prese la guancia tra le dita, mi disse cose che non capii, poi mi diede un dipinto che lo ritraeva: ci scrisse "Bestwishes to Rita Pavone". E scomparve dietro la porta. Mia madre esclamò: “Era proprio lui...”.
Com’era l’America vista da una ragazza italiana di allora? Ero sbalordita. Sembrava un mondo immaginario, anche solo la tv a colori per me era stupefacente. Poi avevano soluzioni tecniche avanzate, dai microfoni alle luci.
Ricorda comportamenti fuori dalle righe tra le star che ha incontrato allora? Chi entrava in un teatro o studio tv era attento a non sgarrare, fossero gli AnimaIs o Tom Jones, Marianne Faithfull o i Beach Boys. Mick Jagger è l’emblema di tutto questo: qualunque cosa faccia in privato, sul palco è sempre impeccabile.
Nessun rimpianto per essere stata per tanti anni senza esibirsi e incidere dischi? No, dovevo rigenerarmi. Volevo poter andare da un discografico senza sentirmi dire: “Da Rita Pavone il pubblico non si aspetta questo”.
Nel ’68 lei aveva 23 anni. Ma molti giovani italiani la giudicarono superata. Quell’anno ci fa un ricambio generazionale, e un cambiamento nei gusti. Arrivarono i cantautori, che esprimevano concetti importanti. Io però non volevo farmi trascinare, parlare di società e proletariato nelle canzoni. E lo pensavo da proletaria: io intendevo fare musica che doveva portar fuori dagli schemi della vita quotidiana. Sentivo Leonard Cohen, sentivo musica che diceva cose importanti, ma tra ascoltarla e sentirsi adatta a cantarla c’era differenza. Così ebbi la mia crisi, come del resto Gianni Morandi: ci bastonarono perché cantavamo cose scacciapensieri. Fui fortunata, perché all’estero non si facevano problemi sentendo amore che faceva rima con cuore, così continuai a vendere dischi altrove.
Mina e Celentano però non furono bersagliati... Avevano qualche anno in più e un seguito consolidato, non solo tra i giovanissimi. Poi l’Italia a me voltò le spalle anche per un altro motivo: nel 1968 sposai Teddy Reno. Era più grande di me, e quando ci siamo conosciuti era già sposato. I media ci dipinsero come delinquenti. Ma 45 anni dopo siamo ancora insieme, ci siamo rivelati una coppia come poche.
Non è che l’immagine di ragazzina, magari anche un po’ maschietta, propugnata dal Gian Burrasca televisivo e dai film di Lina Wertmuller, le ha nuociuto al momento di diventare grande? Non credo ci fosse niente di ambiguo in Gian Burrasca, che fu un successo enorme ed è ancora guardabile oggi. Sono sempre stata un po’ tomboy, e per la parte mi ispirai ai miei fratelli maschi. Ma se non fossi stata femminile, quel gran figo di mio marito non si sarebbe messo con me, hehe...
Di ciò che scrisse di lei Umberto Eco cosa pensa? Beh, è un onore che si sia occupato di me, ma non condivido quando dice che ero una bambina che diceva parole d’amore. Ero una ragazza di 17 anni con le sue emozioni.