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 2013  settembre 28 Sabato calendario

SOGNAVO L’ANONIMATO [INTERVISTA A ZEROCALCARE]

IL 29ENNE a tavola davanti a me ha due tatuaggi: sull’avambraccio sinistro c’è scritto “This too shall pass”; sul destro, il famoso monito del fumettista Jack Kirby “Comics will break your heart”. Per il momento, Zerocalcare ha superato la fase difficile e ancora non ha il cuore rotto dai fumetti, o quasi: «Paradossalmente ho tatuato queste parole l’anno scorso, proprio quando cominciava ad andarmi bene e ho preso una serie di fregature». Michele Rech, in arte Zerocalcare, di madre francese, è un attivista dei centri sociali di Roma e ha dovuto fare i conti con una popolarità inaspettata, che lo ha obbligato a rompere il guscio di Rebibbia dove è cresciuto e ancora vive e di cui, con fiero accento romano, dice: «Sto bene lì, non c’è niente di interessante, mi sembra perfetto». Sicuramente non è l’ottimismo fatto persona, ma la sue armi migliori sono l’ironia e la spontaneità con le quali riesce a raccontare non una, ma più generazioni senza futuro, in modo spassoso eppure impegnato. Non sembra il tipo ambizioso, non frequenta eventi mondani nè colleghi, anzi se ne frega proprio, è solo uno, come molti della sua età, con l’arte di svoltare giorno per giorno. Dopo l’autoproduzione de La profezia dell’ArmadiIlo, con una crescita di vendite vertiginosa, è diventato in un paio d’anni fra i più quotati fumettisti italiani; il suo pseudonimo per qualche tempo l’ha protetto da presentazioni e interviste. Dopo una serie infinita di telefonate a vuoto lo incontro a Roma, nel quartiere San Lorenzo: «Non rispondo ai numeri sconosciuti perché temo siano per i debiti».
La conversazione non può che cominciare con quei personaggi che nei suoi fumetti affiorano dall’adolescenza, icone degli anni ’80 e ’90 come Lord Fener, Ken il Guerriero o Kurt Cobain, ma soprattutto l’inseparabile armadillo, a rappresentare la coscienza di Zerocalcare e quella di un’intera generazione che ci si è ritrovata: che tipo è l’armadillo? Ci raggiunge? «Non esce volentieri di casa, già mi sono immolato io per arrivare fin qua, figurati lui. L’armadillo è stato una necessità, visto che nelle storie c’era solo il mio personaggio col mio autismo: dovevo creare una rappresentazione dell’inconscio con la quale dialogare e rendere la tavola più vivace. L’armadillo è un animale che si rinchiude in se stesso, che ha la corazza, un asociale per eccellenza. In realtà, credevo fosse l’elemento con cui la gente si sarebbe riconosciuta di meno, perché è la mia parte più personale, gli altri che hai citato appartengono al patrimonio collettivo, anche perché quando ho cominciato a raccontare credevo di tirar fuori robe di cui mi vergognavo ma che, poi ho scoperto, non sono solo mie paranoie». La carriera di Zc ha subito un’accelerazione improvvisa: Makkox ci ha visto giusto, è stato il primo a puntare su di te. Conosco editori che hanno scartato il tuo materiale e ora rosicano: che risposte hai ricevuto le prime volte che hai mostrato le tue tavole? «Ho inviato i miei lavori a tutti gli editori possibili, le avevo inviate pure al concorso di Lucca Comics e mi hanno riso in faccia, per poi premiarmi l’anno dopo. Tutte le riviste con cui avevo lavorato prima hanno chiuso dopo il terzo numero, l’unico che ci ha creduto è stato Makkox, mettendoci la faccia e i soldi per un’autoproduzione. Anche il suo editore non mi aveva risposto».
Saranno contenti quelli della Bao Publishing, che ora sfornerai il quarto libro, titolo Dodici, senza averli affossati prima! Come spieghi il successo del tuo blog? «Sempre per Makkox, lui ha un serbatoio di lettori che si fidano di quanto raccomanda, poi si è instaurata una bella dinamica, un po’ per la cadenza settimanale, un po’ per le condivisioni su Facebook (la puntata I vecchi che usano il pc, solo nel blog, ha avuto 81mila share, nda). L’unico rischio è il populismo, se la storia in cui tutti si riconoscono ha successo, in quella dopo tendi a creare qualcosa con lo stesso minimo comun denominatore e diventa una prigione».
Zc ha la stessa espressione malinconica del suo protagonista d’inchiostro e, timido, scansa ogni elogio: nelle tue storie appaiono anche i tuoi amici, come reagiscono? «Secco, che è il comprimario, è molto contento, quello che disegno come l’amico Cinghiale altrettanto... Dice che ora scopa di più...». Una volta vidi su YouTube un video in cui dicevi che era la prima volta che ti intervistavano, adesso Zerocalcare è straricercato oltre che invidiato, tanto che non riesci più ad aggiornare il blog. Come ti trovi in questo passaggio (rapidissimo) dalla fanzine alla celebrità? «La celebrità nei fumetti è sempre molto relativa, comunque male. Da oltre io anni disegno per fanzine e spazi occupati, la cosa che mi interessava era l’anonimato, non associare Zerocalcare a un cognome o a una faccia, ma è naufragata quasi subito, credo sia dovuto alle mie paranoie sulla Digos e le guardie». Sarà anche per questo che – vengo a sapere in seguito – Michele, prima d’incontrarci, si era informato da un’amica comune sul mio orientamento politico. A proposito, da ragazzino hai partecipato alle manifestazioni del G8 di Genova, ora che hai un grande pubblico, come cerchi di mantenere coerente l’attivismo collettivo con le tue storie autobiografiche? «Cerco di dividere le due cose, le mie storie autobiografiche le scrivo senza rispondere a nessuno, quelle più politiche, che riguardano la comunità e il movimento, cerco di farle a partire da processi collettivi, sono il prodotto di un’assemblea o di un gruppo di persone, io resto l’anello finale, quello che disegna. E vero che ultimamente mi chiedono una vignetta per ogni sgombero, arresto o manifestazione, ma sono cose che sento di fare volentieri, per me la normalità resta quella».
A questo punto Zc mi racconta l’aneddoto di una sorta di stalker su facebook che voleva solo qualche dritta per alloggiare a Roma: dimmi del tuo rapporto con i social network, come gestisci il privato con il pubblico? «Non lo gestisco! Non ho diviso la vita pubblica da quella privata così capita che gli amici mostri di Rebibbia possano interagire col capo della Disney. Un esempio: un amico una volta ha pubblicato la foto di un tatuaggio sull’ombelico con una svastica fatta di cazzi dicendo che era una mia foto e, guarda un po’, in parecchi ci hanno creduto, tra cui gente del lavoro. Capisci che la cosa possa mettermi un po’ in difficoltà». Michele parla di sé e delle sue paure con l’amarezza propria dei disillusi; ciò che colpisce è l’universalità di quelle paure così personali: narrare le tue ipocondrie ti aiuta a sciogliere qualche nodo? «No, anzi, poi la gente ti scrive: "Sai che io ho pure questa paranoia qua", affastellandosi sulle mie, che non sono poche. In compenso ho scoperto che certe mie fisime sono molto diffuse... Poi, in realtà, a qualcuno sembrava che parlassi di salsicce».
Alla fiera Più Libri Più Liberi di Roma, Zc ha autografato libri per oltre nove ore, è chiaro che i suoi fumetti sono già un manifesto generazionale: che differenza vedi fra la tua generazione e quella degli altri disegnatori? «Prima che me lo domandi, sappi che non ho mai letto Pazienza ne Dylan Dog, ma è come se li conoscessi, molti hanno copiato da loro. Credo che in Italia, nei fumetti, si sia perso il bisogno di raccontare la quotidianità, perché sono ancora pensati come un universo fantastico che si occupa poco della realtà. Ci sono molti disegnatori più bravi di me, però raccontano altro. Nei film invece ci provano, magari con robe obbrobriose come L’ultimo bacio». Non a caso in Italia parliamo di graphic novel, all’americana, proprio per separare l’idea classica del fumetto da un prodotto più adulto. A sangue freddo: te invece da chi hai copiato? «Meglio dirlo subito che finire come Luttazzi: da un francese, Boulet, che ha un blog a fumetti. A dire il vero anche da altri blogger francesi, in generale da tutti quelli che fanno cose autobiografiche. Ma a ridarmi l’amore per i fumetti è stato La mia vita disegnata male di Gipi. Poi, certo, ho letto ogni cosa prodotta dalla Marvel, Dragon Ball e tantissima roba indipendente». Hanno scritto che rappresenti l’immaturità e l’incapacità di reagire dei giovani, a me invece sembra che riesci a dar voce con estrema sensibilità – e qui Zc abbassa gli occhi come vergognandosene – a una generazione che tenta di sopravvivere alla precarietà: ti sei spiegato questo fraintendimento? «Nel blog racconto storie leggere per una questione di spazio e per l’attenzione che un lettore può avere, nel fumetto, invece, le tematiche possono essere più introspettive. Chi apre solo il blog ha una dimensione di me come Vanzina; Ogni maledetto lunedì su due è una raccolta di quanto pubblicato sul blog, forse quel giornalista aveva letto solo quello».
Il fumettista lavora su due piani, immagine e testo, le tue tavole, certe volte, sembrano essere volutamente poco elaborate.. «Perché sono una pippa! Con le inquadrature da sotto e da sopra, gli animali o le mani, faccio appena le anatomie... Però all’interno di questi limiti ho trovato una sintesi stilistica mia. Credo che nel fumetto debba essere tutto comprensibile senza didascalia, se il disegno è brutto o bello è soggettivo». Non pare un discorso troppo teorico, di chi ha frequentato l’Accademia.. «Figurati, ho seguito un anno la scuola fumetti, ma nun m’è servita a un cazzo, quei diplomi valgono come questa tovaglia...» E non hai un orario fisso per disegnare... «In estate dalle 9 di mattina alle 9 di sera, piscio una volta, non pranzo e mangio 200 grammi di pasta all’una di notte». Una bella vita insomma! Ascolti musica mentre lavori? «La parte dello storyboard in silenzio, con le serie TV di sottofondo l’inchiostrazione e con la musica la parte al computer... Sto a rota di punk della provincia romana».
In Dodici, il nuovo lavoro, sono protagonisti Cinghiale e il Secco, un professionista del poker online. «Non è una storia autobiografica e ho preferito non essere al centro del racconto, anche per sentirmi più libero. Mentre andavo avanti, mi sono accorto che mi piacerebbe usare ancora questa libertà». Ambientato a Rebibbia, è un’originale invasione di zombie. «Non sono uno scrittore horror o di fantascienza, quello che aveva senso fare : era inserire morti viventi negli spazi e fra le persone che conosco. Fuggire da Rebibbia invasa dagli zombi mi sembrava l’ideale». Il titolo deriva dal fatto che la trama si svolge nell’arco di 12 ore, non c’è nessuna metafora nel far camminare zombie nel tuo quartiere? «No, no, per carità! Se ci vedessero una relazione con gli abitanti, che non c’è, mi decapiterebbero! E un lavoro di montaggio di una vicenda che va dalle 9 di mattina alle 9 di sera, con vari flashback: il presente in bianco e nero, il passato a colori; un po’ il contrario di quello che si fa di solito». E c’è qualcosa di nuovo rispetto allo Zerocalcare che conosciamo. «Volevo fare una cosa leggera, la faccenda del fumetto generazionale mi pesa tantissimo, perché mi accolla una responsabilità che non mi sento. Io sono un consumatore di tutto ciò che riguarda gli zombie, il poter mettere un sassolino mio in questa narrazione mondiale è un orgoglio! Boh, che ne so, in questo momento mi permettono di fare qualsiasi cosa propongo».
E giuro che, mentre Michele parla, dalla radio del ristorante parte Thriller e va in crisi quando gli anticipo che dovremmo scattare un paio di foto: «Basta che non mi fai fare figure de mmerda». Prendi il dolce? «Nun me va». Daje, paga RS. «Quella macedonia, credo sia il mio fabbisogno di frutta in un mese». Prima autografami un paio di fumetti che li rivendo su eBay. «Fai bene».